Concerto romano per i cinquecento anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso
di Cecilia Malatesta | immagine: Angelica e Medoro Simone Peterzano, 1580. Collezione privata
Non c’è forse testo e contesto migliore da affrontare per un ensemble versatile come Micrologus che quello dell’Orlando Furioso, del suo autore e delle fertili corti di Ferrara e Mantova che ne hanno nutrito le tasche e l’immaginazione. Per il cinquecentenario della prima edizione del poema l’ensemble ha portato all’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma un programma sulla musica nata intorno al poema ariostesco: ottave intonate, frottole, madrigali e danze dalla corte estense del primo Cinquecento. Ma più che celebrare l’evento del 1516 in sé, lo spettacolo ideato da Patrizia Bovi re-introduce la dimensione temporale dell’elaborazione, della stesura, del racconto di cui la musica è testimonianza. Dalla gestazione lenta e preannunciata, le ottave dell’Orlando venivano infatti cantate e raccontate ben prima di essere date alle stampe e con una diffusione che valicava le mura della corte ferrarese per diffondersi nelle piazze tramite le voci dei cantastorie.
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Ed ecco che veniamo a conoscenza di quelle varianti testuali che incrinano le nostre certezze scolastiche ricordandoci che i poemi hanno vita prima e dopo, quando proliferano “arie per cantar ottave ariostesche” e quando musici come Bartolomeo Tromboncino, Francesco della Viola, Giaches De Wert, Cipriano de Rore e Jacob Arcadelt estrapolano e cuciono nuova musica sugli episodi del Furioso. Interpolano le declamazioni di celebri ottave, come l’encomio di Ippolito e Isabella o il vagare disperato di Orlando e l’immancabile incipit affidato al carisma di Patrizia Bovi ed intonato sulla lezione di Vittorio Lorenzi, uno degli ultimi cantastorie toscani a raccontarci di Orlando, Angelica e gli altri, registrato nella campagna di Alan Lomax del 1954.
Le voci e gli strumenti dei nove interpreti di Micrologus cantano di giovani vergini (La verginella è simile alla rosa e del qui sottointeso dubbio sulla virtù di Angelica), di corpi sensuali, dei seni e dei bianchi fianchi erotici di Olimpia, di sottili doppi sensi floreali o di più esplicite ambivalenze frottolistiche e sbruffonaggini cavalleresche. Spartiacque del concerto e del poema stesso è quel famoso canto XXIII in cui Orlando perde il senno innanzi all’evidenza dell’amore corrisposto e consumato tra Angelica e Medoro.
Eco della sua disperazione diventano le forme più alte della produzione cinquecentesca, il madrigale Gravi pene in amor qui nella doppia versione di de Rore e Arcadelt o la splendida e lirica frottola S’io son stato a ritornare. I Micrologus si confermano un ottimo ensemble che riesce bene sia nelle intonazioni a cappella – splendido basso Mauro Borgioni – sia nel gusto degli accompagnamenti strumentali di arpe, lira da braccio, liuto e viola. Paradossalmente più sacrificati i brani a ballo, con le ottime percussioni di Gabriele Miracle, le cornamuse e i flauti di Goffredo degli Esposti e la lira di Gabriele Russo, che andrebbero ballati anziché ascoltati ancorati alle sedie di velluto.
Se il Furioso è per sua natura un’opera aperta che rifiuta una ricezione passiva ma prevede e necessita di continua interazione col lettore, le scelte dei Micrologus mirano al sollevamento della curiosità e del dubbio, le vere ragioni per cui vale la pena ascoltare questa musica; con quell’ironia, quel divertimento e quella stessa onestà con cui Ariosto guardava i suoi personaggi e leggeva la realtà.
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