di Luca Chierici foto © Silvia Lelli
Ignorata per molti anni dai responsabili della programmazione concertistica alla Scala, Martha Argerich è finalmente tornata in una Milano che l’ha sempre accolta fin da tempi remoti, come protagonista in ahimé lontani recital – l’ultimo era stato nel 1982 alla Società del Quartetto – poi in duo con partner più o meno famosi, successivamente solista nei concerti per pianoforte e orchestra da lei più frequentati. In quest’ultima veste la Filarmonica della Scala e Riccardo Chailly l’avevano ospitata per la prima volta lo scorso Giugno in un applauditissimo Ravel nella cornice festosa di Piazza del Duomo. Lunedì scorso l’evento era particolarmente atteso perché “Martha” si esibiva a fianco di Daniel Barenboim, amico di una vita e compagno delle prime esperienze musicali dei due bambini prodigio a Buenos Aires. Una parziale delusione – il non avere potuto ascoltare il Primo Concerto di Liszt, che era stato il piatto forte della collaborazione tra i due artisti in questo 2016, ad esempio a Londra e a Lucerna, e che non era mai stato eseguito dalla Argerich in Italia – è stata bilanciata dalla proposta del Primo Concerto op. 15 di Beethoven, elemento non nuovo nel repertorio della pianista argentina ma oggi presentato al pubblico con una freschezza e una souplesse che aggiungeva se possibile un fascino ancora maggiore rispetto all’eccellenza delle prove sostenute in passato.
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Non è sufficiente pensare all’intesa perfetta tra i due connazionali, abituati a suonare insieme questo magnifico saggio del Beethoven “prima maniera” fin da giovanissimi, per spiegare in termini chiari quale sia stato il livello artistico raggiunto dalla Argerich in questa occasione. E nemmeno la proverbiale facilità tecnica della pianista può da sola giustificare gli esiti raffinatissimi di una lettura all’interno della quale si coglievano tutti i possibili significati di una partitura che fotografa un momento particolarmente felice nell’esistenza del più tormentato dei compositori. La Argerich è capace oggi, ancor più di una volta, di fare uscire dallo strumento ogni minima intenzione espressiva, come se tra lei e la tastiera non esistesse alcun tipo di vincolo fisico. Con il passare degli anni certa proverbiale sua irruenza ha lasciato il posto anche a una dolcezza infinita che abbiamo ritrovato soprattutto nel tempo lento del Concerto. Ma in ogni momento il fraseggio era sempre imprevedibile, vivo, condotto con la libertà di chi oramai tutto può permettersi ogniqualvolta si trovi a contatto con le pagine tanto amate. Barenboim ha seguito con amore la Argerich in questa avventura che tra l’altro è approdata a una visione del Concerto si può dire perfetta in termini di rispetto del contesto storico, della datazione della partitura, senza indulgere a inutili mozartismi né a proiezioni del discorso ai confini di un romanticismo che qui è appena accennato.
Come è oramai felice consuetudine nel corso dei loro recenti appuntamenti, i due pianisti si sono riuniti nel più confidenziale dei “quattro mani”, quel “Rondò dell’Amicizia” di Schubert che di solito suggella l’intesa tra due compagni di vita musicale, siano essi del livello dei protagonisti dell’altra sera, oppure di quello di semplici “dilettanti” che ogni tanto provano il piacere (davvero singolare) del suonare assieme.
La serata già ricca di emozioni si è ulteriormente aperta a nuovi orizzonti nel momento in cui Barenboim ha affrontato da par suo la settima sinfonia di Anton Bruckner, elemento preziosissimo di un ciclo che il direttore argentino ha presentato numerose volte all’estero, soprattutto alla testa della Staatskapelle di Berlino, ma che era stato lasciato allo stato progettuale al tempo della sua collaborazione con la Scala. In questo caso le intenzioni del direttore, ricche di pregevolissimi dettagli, non hanno purtroppo trovato totale eco in un’orchestra che esibiva evidenti limiti nella sezione degli ottoni, a fronte di un completo coinvolgimento degli archi. Il sinfonismo di Bruckner richiede uno strumento che garantisca una completa rispondenza in termini di sonorità e di precisione, ed è un peccato che non sia stata colta dall’orchestra tutta, in maniera appropriata, l’importanza della collaborazione, oramai estemporanea, di uno dei più grandi direttori dei nostri tempi. La straordinaria, intensa qualità musicale della settima sinfonia è capace tuttavia di smuovere anche gli animi più refrattari alle emozioni, e il risultato si è comunque condensato in un’ovazione che si concede solamente agli eventi memorabili.
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