Il pianista ungherese delizia a Torino con la sua raffinata sensibilità musicale e concerta con la Chamber Orchestra of Europe un’esecuzione almeno memorabile
di Attilio Piovano
UN BEL SUCCESSO quello registrato a Torino, la sera di domenica 12 aprile presso l’Auditorium Agnelli di via Nizza, per la stagione di Lingotto Musica. Protagonisti il pianista András Schiff (anche in veste di concertatore-direttore) e la Chamber Orchestra of Europe. In apertura di serata il sommo Bach ed ecco allora il cembalistico Concerto in mi maggiore BWV 1053 che – ovviamente – Schiff esegue al pianoforte. E subito nell’interpretazione di Schiff sono emerse esattezza ritmica e chiarezza di fraseggi, purezza di suono ed equidistanza assoluta da un lato rispetto alle nevrosi di certe esecuzioni “barocche” oggi assai di moda, e d’altro canto dagli eccessi di altri che finiscono per tradire il dettato originale, stravolgendo l’esprit cartesiano del Kantor che a Lipsia rielaborò svariati concerti per tastiera, sollecitato dalle esigenze di consumo del cosiddetto Caffè Zimmerman. Schiff adotta un suono perlaceo; molta misura ed eleganza nella sua interpretazione ed una ammirevole sobrietà negli abbellimenti.
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Se s’ha da suonare i concerti bachiani al pianoforte è così che vanno fatti, ne abbiamo la certezza. Il rischio (con altri pianisti) è un’esecuzione asettica e priva di emozioni, non con Schiff che della misura e dell’equilibrio fa il suo punto di forza, anche per così dire emotivo. Molto pathos, poi, nel centrale Siciliano che fa il paio con quell’altra ancor più celebre e dolente Siciliana, inserita entro l’organistico Concerto BWV 596 (che è trascrizione da un originale di Vivaldi); quanta melanconia grazie alla densità delle armonie ed al colore cinereo, lagunare che sotto le dita di Schiff si sprigionava al meglio. Suona con grande intensità, pochissime concessioni alla dinamica giocando tutto su impercettibili rallentandi e sospirosi trattenuti che fanno vivere la pagina. Da ultimo l’assertiva scioltezza del Finale dove Schiff (simbiosi a dir poco perfetta con l’ottima compagine orchestrale) ha appena sbrigliato qua e là qualche sonorità, una gioia per le orecchie e per il lato intellettuale dell’ascoltatore, quello più in sintonia con la lucida ratio bachiana. Ammirevoli, per dire, le emersioni delle entrate polifoniche nella zona centrale, senza mai forzare, con levità e gusto. Una lezione di stile. Indimenticabile.
Da Bach al concittadino Bartók, del quale Schiff ha scelto di offrire al pubblico il fascinoso Terzo Concerto per pianoforte e orchestra scritto negli USA poco prima della morte. L’ungherese Schiff, ottimamente assecondato dall’orchestra sulla quale ha di certo compiuto un certosino lavoro di concertazione, crea subito il clima giusto, tra il trasognato e l’effervescente, con quel tema folklorico di incredibile appeal che apre il Concerto. Bene l’allure cameristica dell’orchestra, di fronte a questo singolare lavoro che Schiff, opportunamente legge in chiave per così dire neoclassica, ponendone in luce certe armonie acidule, certe interpunzioni agrodolci, ma sempre con garbo e misura, come un antico Kapellmeister, e un pizzico di velata ironia. Dell’Adagio evoca il pallore quasi lunare, quel che di religioso e votivo che è insito nel pezzo, ma anche la singolare stranezza del tutto imprevedibile dell’episodio centrale. Sicché si è potuto apprezzare al meglio il clima accorato ed arcano e nel contempo certe screziature materiche dell’episodio mediano, appunto, ibridato di fremiti. Poi nel Finale a prevalere è l’incisività ritmica, non manca nemmeno un passo fugato di bachiana memoria che Schiff ha reso con nettezza assoluta e da ultimo certe cinematografiche, luminescenti accensioni che suggellano questo lavoro singolare e bellissimo. Applausi convinti e un assai gradito bis pianistico, ancora sul versante di Bach e si trattava della cembalistica Prima Partita in si bemolle maggiore BWV 825 di cui Shiff ha eseguito i due Minuetti dall’amabile galanteria e la seconda parte della Giga dalla spigliata brillantezza e dagli spettacolari incroci di mani, prossimi ai modi di certo Scarlatti.
Appena un poco meno emozionante la seconda parte della serata con la sublime Jupiter mozartiana della quale Schiff, ora sul podio, ha staccato in apertura un tempo tranquillo, a vantaggio della chiarezza della trama sonora, certo, ma a prezzo di qualche sacrificio quanto a verve e magnetismo. Quello stesso magnetismo che pareva mancare un poco nel Finale: esattezza assoluta nel fugato, ma avremmo voluto (forse abituati o viziati da decenni di altre e dissimili interpretazioni) maggior fuoco. Aver eseguito, poi, per intero tutti i ritornelli ha fatto percepire qua e là (absit iniuria verbis di fronte a Mozart) un leggero senso di lungaggine. Molto intenso il tempo lento con quegli sguardi ad un mondo ormai perduto, quel clima che ricorda da vicino l’aura sublime del tempo lento del Concerto K 467 dove si respira l’aria della alte quote e bene anche il Menuetto affrontato con spigliata scioltezza, e molta virilità, privo di inutili smancerie. Anche qui (ma limitatamente ai due movimenti citati) una lezione di stile. Buona la prova fornita dall’orchestra. In chiusura quale bis di Schubert il Balletto n° 2 da Rosamunde eseguito con delicatezza ed energia nel contempo a renderne la fragranza smaccatamente austriaca.
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