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Composizioni di Claude Vivier, Ana Sokolovic, Marie Pelletier, Sofia Gubaidulina sono state eseguite al Teatro San Leonardo
di Giampiero Cane
I l dépliant del concerto nomina Zipangu Ensemble il gruppo di strumentisti del Teatro Comunale di Bologna e dice che le musiche sono dirette da Fabio Sperandio: i nomi di Italia, Canada, Germania, Albania seguono il suo, vattelappesca perché. Certo non sono le nazionalità del direttore, ma a mio parere nemmeno quelle dei singoli compositori in cartellone: Marie Pelletier, canadese, Ana Sokolovic, nata a Belgrado, nella ex-Jugoslavia nel ’68, di Sofia Gubaidulina, russa, e di Claude Vivier, canadese. Vai a capire. Comunque il concerto, incluso nel non esaltante cartellone di Angelica, per quel cimitero che è la vita musicale di Bologna si presentava bene. Nell’800 si ascoltava musica dell’800; nel ’900 e nel 2000 si ascolta musica dell’800. Avevano ed hanno una certa forza (i genitori e i nonni, intendo). Il pezzo della Pelletier (1959), Han No. 12, per archi, in prima italiana, è abbastanza divertente nel suo far convergere quel che di sentimentale si può liberamente trovare nell’Appassionata di Beethoven con alcuni fervori post-veristici e d’enfasi espressionistica in una narratività che par si sostenga sulle palafitte della ouverture de La Forza … della espressione verdiana. Diciamo che non è un granché, ma chi continuerà a leggere vedrà poi.
Il duetto per violini Ambient V (1995) di Ana Sokolovic cerca le mediazioni possibili tra il sentimentale e il meccanico. In un’atmosfera che suggerisce la continuità, gioca con il divergere, con le asimmetrie. È un esempio abbastanza buono del piacere che si può ricavare lasciandosi alle spalle Darmstadt e il rigore con cui in quella scuola si prediligeva fossero trattati i parametri musicali, quasi soffocando la libertà dell’arte nella staticità delle norme. Da quella triste stagione che fu fondata da Boulez, dopo il suo divino Marteau, già con Structures, e che gorgheggiò con i Goeyvaerts, i Barraqué, i Grisey, in parte seducendo anche gli Stockhausen e riecheggiando fin negli Xenakis, la musica, che allora contemplò solo se stessa (scienza della costruzione), uscendosene da quello stato non poteva che accettare il rischio di apparire per quel che variamente risultava una volta fuori di sé e fuori delle competenze analitiche. Tornano in gioco, dunque, i narratori, i Berio di Laborintus (che poi però sembrano recedere, ma non decisamente, come forse in Un re in ascolto, ma di certo nel finale da apporre a Turandot), i Rota rivalutati, le dolcezze di Sciarrino, le fantasmagorie cromatiche che da Ferruccio Busoni sembrano arrivare a Marcello Panni.
Finalmente un po’ d’aria, ma non è detto. Dalla Russia ne viene qualcosa, la Gubaidulina appunto, ma forse compiaciuta dal dolore, dal Baltico un’altra musica rinscemita nell’estasi, e dagli Usa (e getta) un’altra ancora impacchettata nel ritmo avvolgente.
Qui s’è ascoltata una sonata per violino e cello della Gubaidulina. Se il dolore sia stato vissuto o sia narrato è cosa senza importanza, ma la sua freue dich! rejoice! vive di questo. Le due strumentiste, Silvia Mandolini, violinista, e Aya Shimura, violoncello, si sono impegnate al meglio (non delle loro possibilità, forse, ma dell’occasione). Non credo abbiano provato nella sala del San Leonardo, percorsa dai suoni della strada, ma hanno ottenuto l’ottimo risultato di convincere un pubblico che non è “della classica”. Hanno ottenuto grandi applausi e non c’è che da compiacersene. A conclusione è stata eseguita una musica, Zipangu, di Claude Vivier, dalla quale l’ensemble ha preso il nome. Ha un qualche sapore esotico, ma non saprei che altro dire.
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