Scrivere musica è «narrare una vecchia storia che non vuole essere dimenticata», disse il compositore tedesco scomparso oggi a Dresda. Residente in Italia, era nato a Gütersloh (Renania) nel 1926
[laquo] Chi può dire dov’è la prima linea?» Era il 1958, e con questa domanda Hans Werner Henze mosse le sue critiche ai “Corsi estivi per la nuova musica internazionale” di Darmstadt, l’occasione di confronto più importante per i giovani compositori del secondo dopoguerra. Alla base di quelle obiezioni, l’impossibilità di riconoscersi in una tendenza di scrittura collettiva e in una filosofia di gruppo. Quale doveva essere la strada per una “nuova musica”? Indagare le ragioni più profonde della composizione cercando vie personali.
Il compositore tedesco è morto oggi a Dresda all’età di 86 anni. Lo ha comunicato il suo editore Schott. «Con la morte di Henze abbiamo perso uno dei più importanti compositori del nostro tempo». Un percorso, il suo, lontano quindi dai dogmatismi espressivi, che si è soffermato su vari generi indipendentemente dalla loro natura stilistica: dal neoclassicismo al post-serialismo, fino al jazz. Non è difficile capire perché in questo nomadismo musicale di stili egli abbia intitolato la propria autobiografia Canti di Viaggio, e anche perché secondo lui scrivere musica è «narrare una vecchia storia che non vuole essere dimenticata».
Nel 1953 Henze si era trasferito in Italia dalla Germania, a Marino, nel Lazio, come reazione certamente alle ferite del nazismo e dell’omofobia. Scelse di vivere qui, in questo Paese pieno di luce dell’avvenire, incontrando poi il suo compagno Fausto Moroni. In relazione ambigua con le avanguardie, in bilico tra rottura e tradizione, frequentò e lavorò con poeti quali il cileno Gastón Salvatore, conosciuto a Berlino presso la lega tedesca degli studenti socialisti, e l’austriaca Ingeborg Bachmann. Ma non solo. «Per giustificare se stesso / ogni possibile sistema / deve trascendersi, / e quindi distruggersi»: sono alcuni versi di Hommage à Gödel di Hans Magnus Enzensberger, poesia sulla quale Hans Werner Henze ha composto nel 1971 il suo Concerto per violino n. 2. Probabilmente Henze ha avuto presenti questi concetti per tutta la sua vita: raro infatti in un compositore tedesco un percorso così frastagliato eppure così rigoroso. Dai trionfi dell’opera seriale Boulevard solitude (prima ad Hannover, 1952) alla musica politicamente impegnata di Voices (1973, su testi di Padilla, Brecht, Cruz, Fried, Ungaretti, Katsaros), dal ciclo di dieci sinfonie (1947-2000) al teatro musicale di Die englische Katze (1980-83, da Edward Bond), passando per il balletto, il vaudeville, il mimodramma, la pantomima, la musica per il cinema (Resnais, Schlöndorff), la musica di Henze è, per nostra fortuna, «di una diversificazione tutta barocca, si burla diabolicamente degli stili, è ricolma di contraddizioni» (Jean-Noël von der Weid). E quindi in tutto degna del suo creatore.
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L’AUTOBIOGRAFIA
«Fu durante questo inizio d’estate del 1955 che mi recai a Darmstadt per condurre, insieme con Boulez e Maderna, un corso di composizione? Sì, sì, così è stato, e non fu affatto divertente: giovani compositori che preferivano esprimersi in un linguaggio musicale che risaliva al periodo prima di Webern non venivano nemmeno accettati. Maderna e io dovemmo consolare e calmare gli studenti, e io mi annoiai senza fine. Con tutto quello che dovetti vedere e sentire quell’estate, tra cui anche la persona di Stockhausen, mi resi conto della differenza, della mia enorme distanza dalla scena musicale nazionale. Non ne facevo più parte e non avevo mai voluto farne parte. Era assurdo accusarmi, come accadde poi, dopo la prima del König Hirsh, di aver tradito la causa della musica moderna, quando io non avevo neppure confidenza (e questo nemmeno oggi) con i contenuti di questa causa. Non si può tradire ciò in cui non ci si è mai identificati!»
La polifonia che avevo sviluppato in opere così diverse quali Laudes, Lord e Bassariden in questo caso (Das floß dei Medusa, ndr) diventò una reale e realistica sovrapposizione di più voci: voci di uomini, le une buttate sopra le altre, voci che aumentavano fino a diventare grida, oppureche si spegnavano per farsi mormorio e silenzio. E mi sembrò, e questo era nuovo nel mio modo di comporre, che in fondo anche gli strumenti rappresentassero le voci, il canto o la declamazione, in modo che la musica strumentale potesse essere intesa, molto consapevolmente, come la versione strumentale di una musica vocale. Anche prima di confrontarmi con il soggetto della Medusa, qualche volta mi era capitato di comporre pezzi per strumenti come se stessi srivendo dei ruoli, come se gli strumentisti fossero attori che recitano e interpretano dei testi.
tratto da Canti di viaggio
ed. Il Saggiatore, edizione italiana a cura di Lidia Bramani
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