Quattro diverse declinazioni dell’universo iberico, per il concerto che la Israel Philharmonic Orchestra ha offerto al pubblico torinese per MiTo, al Lingotto, ieri sera, mercoledì 14 settembre.
Zubin Mehta – dopo le recenti incursioni nell’universo lisztiano («Les Préludes» proposti sia Stresa, sia a Milano), quelle nel mondo di Ciajkovskj (la fatalistica «Quarta» ancora a Stresa) e l’impegnativa «Quinta» di Mahler al milanese Arcimboldi – a Torino ha optato per i climi mediterranei di Albéniz, Rimskij-Korsakov, Debussy e Ravel.
Un programma a tesi di straordinaria presa che ha convinto il folto pubblico fin dal prino istante, al contrario di altri casi in cui le premesse per così dire storico-musicologiche funzionano sì sulla carta, ma assai meno in sala da concerto. Esordio dunque nel segno delle visionarie istantanee di Albéniz trasferite dal pianoforte all’orchestra dall’ottimo Arbós, in veste di strumentatore di lusso. E si trattava naturalmente di «Iberia». Molta verve e ritmi scatenati in «El Corpus en Sevilla», in cui si sa, il musicista “descrive” la festa popolare per il Corpus Domini. Vivide immagini, ma anche languori e dolci estenuazioni in chiusura, con quel suggestivo rintocco delle campane che Mehta ha cesellato con grande delicatezza. Poi colori sgargianti, comme il faut, e luminescenze abbacinanti nello screziato «El Puerto», e nella interpretazione di Mehta e della Israel pareva davvero di percepire il profumo del mare, l’animazione di una città affacciata sul Mediterraneo con i suoi sapori e le sue fragranze. Ritmi palpitanti e seducenti atmosfere. Da ultimo i rutilanti colori di «Triana», pagina volta a sbozzare l’universo di Siviglia, un profluvio dirompente di suoni, una vera festa. Dettagli perfettamente a fuoco, ma anche una visione d’insieme – quella di Mehta – straordinariamente partecipe.
Poi è stata la volta della Spagna secundum Rimskij, sommo orchestratore. Ovviamente del «Capriccio spagnolo» si è trattato. Anche qui, molto bene per il ritmo, la coesione, i dettagli e la qualità del suono: memorabile l’attacco dell’«Alborada» e così pure notevolissimo il finale «Fandango». Ottime prime parti, e non solo le crepitanti percussioni, s’intende, buoni gli archi (qualche velatura nel primo violino solista), splendide e sonore arpe e via dicendo: tutte rivelatesi al meglio nel corso delle «Variazioni» e così pure del «Canto gitano» che, con diverse maniere, costituiscono una vera e propria duplice vetrina. Infine, per l’appunto, il superbo «Fandango asturiano» coi suoi climi infuocati che hanno fatto ulteriormente salire la temperatura emotiva.
Qualche perplessità invece per Debussy di cui Mehta – ça va sans dire – ha incluso in programma «Ibéria». Personalmente ci ha convinto appieno solo il terzo episodio «Le matin d’un jour de fête», dove quasi tutto pareva e posto. Non così in «Par le rues et le chemins» o in «Les parfums de la nuit». Per carità, ineccepibile la precisione tecnica, ma a mancare era il “suono” di Debussy, di quel Debussy, come nota Daniele Spini nel programma di sala, un Debussy ormai lontano mille miglia dall’impressionismo, un Debussy lucidamente novecentesco e moderno.
Mehta puntava molto su concentrazione e rarefazione, con eleganze timbriche assai apprezzabili, ciò nonostante i primi due pannelli – a nostro avviso – non hanno coinvolto come ci si sarebbe aspettati. Poi tutti pronti a far partire il cronometro sul raveliano «Boléro», cronometro che si è fermato su 14 minuti e 30 secondi o poco meno, dunque una esecuzione molto spigliata… Ma si sa, non è col cronometro che si “misura” un’interpretazione. Un «Boléro» parso molto calibrato, sia nel progressivo crescendo, sia nell’appena impercettibile accelerando dell’ultima parte, un «Boléro» più apollineo che dionisiaco, senza quei gigionismi cui altri direttori ed altre orchestre indulgono inutilmente e spesso un poco capziosamente. Tutto a posto, tutto a fuoco, prime parti di gran classe e festa finale del pubblico. Un bis nel nome di Prokof’ev (una tra le pagine più note e icastiche dal balletto «Romeo e Giulietta»).
Da segnalare per dovere di cronaca il lieve ritardo col quale il concerto s’è iniziato per un breve momento di contestazione nei confronti dell’orchestra da parte di una probabile rappresentante di un movimento filopalestinese. Molta compostezza e discrezione da parte dei responsabili della sicurezza, più o meno sommessi mugugni del pubblico e l’amarezza di noi tutti, dacché la musica, la grande musica, vorremmo continuare a pensare e a credere strenuamente che unisca i popoli nel segno della pace, della fratellanza e della tolleranza.
Attilio Piovano
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