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In scena al Massimo di Palermo, in coproduzione con il Teatro Municipal de Santiago, l’opera di Musorgskij nella versione del 1872
di Monika Prusak
“Dilettantismo di qualità”, così Debussy, Janaček e Stravinskij definirono l’arte compositiva di Modest Musorgskij, che in tutta la sua vita ha completato un’unica opera lirica, Boris Godunov, in scena in questi giorni al Teatro Massimo di Palermo e realizzata in coproduzione con il Teatro Municipal de Santiago nella versione del 1872. La critica relativa allo scarso valore accademico delle partiture da parte dei contemporanei non si accorda tuttavia con il fatto che alcuni di loro si ispirarono chiaramente al suo stile, a partire dallo stesso Debussy, la cui opera giovanile Rodrigue et Chimène, come conferma il musicologo Carl Dahlhaus, sembra in alcune parti un vero e proprio calco stilistico. Il “difetto estetico” di Musorgskij, che si esprimeva in arditezze armoniche e formali incomprensibili per l’ascoltatore dell’epoca, pare che stia nella volontà di rendere la musica “realista” e storicamente autentica, dal momento che “i fenomeni che agli accademici della musica sembrano segni di dilettantismo, se vengono considerati da un punto di vista storico, appaiono come le tracce lasciate nella struttura compositiva dal realismo musicale a causa della sua intrinseca violenza” (Dahlhaus).
Quella di Musorgskij è un’opera realistica per eccellenza, il cui libretto, scritto dallo stesso compositore, si ispira alla tragedia Boris Godunov di Aleksandr Puškin e alla Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin ed è costruito su fatti accaduti in Russia al confine tra i secoli XVI e XVII. La vicenda, che presenta un numero elevato di personaggi, racconta la figura di uno zar clemente con il popolo, nonostante abbia ottenuto il trono per via dell’uccisione del vero erede in linea diretta di Ivan IV Il Teribile, lo zarevič Dimitrij. Egli è consumato dal rimorso e muore colpito dal malore alla notizia che lo zarevič potesse essere miracolosamente sopravvissuto. Niente affatto, perché è il monaco Grigorij a fingersi erede di Ivan IV. Egli con l’appoggio dei polacchi e dell’amata Marina Mnišek, ottiene alla fine il titolo reale. La storia russa conferma che dopo l’apparizione del finto zarevič, ci furono tanti altri “falsi Dimitrij” a ripetere la sua menzogna; è anche realtà storica la conquista di Mosca da parte della Polonia che permise all’impostore la realizzazione dell’impresa. Musorgskij sfiora appena il tratto che vede il sedicenne figlio di Godunov, Fëdor, al trono di Russia dopo la morte improvvisa di Boris, anche questo un fatto storico, e ci risparmia la sua detronizzazione e l’uccisione insieme alla madre (motivi presenti in Puškin). In compenso mostra in modo piuttosto crudele, anche musicalmente, il popolo deluso e il clima prerivoluzionario del periodo della smuta, la ricchezza sconfinata dei nobili, la peste, nonché l’atmosfera decadente e dissoluta dei divertimenti da taverna.
Il regista argentino Hugo de Ana, che come di consueto ha realizzato anche le luci e i costumi – va ricordato in tal senso il suo magnifico lavoro per l’opera Senso di Marco Tutino, rappresentata in prima assoluta proprio al Teatro Massimo nel gennaio 2011 -, introduce il pubblico sin dal Prologo in un meraviglioso clima di bellezza. Le scene con Godunov si tingono di rosso, blu, oro e argento, colori caratteristici degli ambienti religiosi ortodossi, le pareti in movimento spaziano dal rosso opaco all’oro, che riflette fortemente le luci, tanto da accentuare ancor di più lo sfarzo dell’aristocrazia russa. Lo stesso riguarda i costumi, che traspirano di tessuti preziosi, e l’enorme tappeto cucito dalla nutrice della figlia di Boris (Ksenija) nel secondo atto. Un numero elevato di quadri religiosi, icone di diverse dimensioni, accompagnano le scene dell’incoronazione di Boris, e ritorneranno successivamente nella scena della morte, attraverso il famoso ritratto della Madonna nera. Tutto ciò crea un forte contrasto con gli ambienti aridi del monastero del primo atto e soprattutto con la rustica scenografia della locanda, per non parlare delle vesti povere del volgo. Il clima si irrigidisce sempre di più nelle semibuie scene popolari, in cui spiccano le vittime e i bambini della pestilenza, con le vesti strappate e i visi “dipinti” dalla malattia.
E i bambini si meritano le più grandi lodi per quanto riguarda le parti corali in Musorgskij: l’eccellente esecuzione sia dal punto di vista vocale sia da quello scenico del Coro di voci bianche del Teatro Massimo, diretto da Salvatore Punturo, ha conferito all’esecuzione un tocco delicato e commovente. Non abbastanza unito il Coro del Teatro Massimo, che nonostante il rinforzo del Coro Radiofonico di Cracovia, non è riuscito a trasmettere né il carattere ruvido del popolo russo, né una precisa dizione, destandosi solo nell’ultimo atto dell’opera, preannunciando i moti rivoluzionari della smuta. L’interpretazione troppo morbida del direttore d’orchestra libanese di origine armena e naturalizzato statunitense George Pehlivanian, ha dato un tratto eccessivamente romantico e di poco temperamento, spesso rendendo poco convincente l’esecuzione dell’Orchestra del Teatro Massimo. Il cast di cantanti, invece, è risultato particolarmente interessante: un gruppo forte di voci russe insieme a una recitazione di carattere popolare ha conferito all’opera l’impronta “realista”. Boris Godunov è un’opera “al maschile”, come annunziato dal titolo, pensata così dallo stesso Musorgskij, che nella prima versione del 1869 non aveva addirittura previsto alcuna protagonista femminile: a causa di questa “mancanza” l’opera fu, infatti, bocciata dai commissari del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Nella versione del 1872 Musorgskij introdusse il personaggio storico di Marina Mnišek, qui interpretata dal mezzosoprano Anna Victorova, già solista ospite del Teatro Bol’šoj di Mosca. La Victorova affronta il ruolo con la massima sicurezza tecnica, supportata da un’importante presenza scenica e da una voce smagliante. Ella è orgogliosa e ambiziosa allo stesso tempo; vedendo il momento di crisi dell’Impostore che si finge il figlio morto di Ivan IV, gli promette un amore fedele al solo fine di spingerlo ad ottenere il trono. È degno di nota anche l’Impostore, sotto il nome di Grigorij, impersonato dal russo Mikhail Gubsky, tenore dal timbro suadente e piacevole, anche lui solista del Bol’šoj. Deliziosa il soprano Anna Kraynikova nel ruolo di Ksenija, figlia di Godunov, è apparsa ideale per questo ruolo grazie al timbro delicato e nostalgico, caratteristico delle voci dell’Est. Accanto a lei, Fëdor, il futuro zarevič (anche se per poco tempo), interpretato dal mezzosoprano Lucia Cirillo, della quale si sono apprezzati la recitazione disinvolta e il caldo timbro della voce. Brillanti prestazioni sono state quelle del praghese Jan Vacik nel ruolo di Šujskij, del russo Igor Golovatenko in Ščelkalov/Rangoni e di Dmitry Voropaev, solista del Teatro Mariinskij, che ha impersonato Il Folle in Cristo, personaggio che chiude l’opera lamentandosi per il triste futuro della Russia. Tra le voci più apprezzabili si segnalano anche il mezzosoprano bulgaro Kremena Dilcheva nel ruolo de La nutrice di Ksenija, e il basso russo Fëdor Kuznetsov nel ruolo del vagabondo Varlaam, dalla voce imponente e grave, che con la sua straordinaria e grottesca recitazione ha partecipato alla folcloristica scena della taverna.
Concludiamo con il protagonista: Boris Godunov è un ruolo maschile complesso da tutti i punti di vista, scenicamente, vocalmente e drammaturgicamente parlando, che richiede all’interprete una particolare maturità e un’intensa concentrazione. Nell’opera, secondo le riflessioni del regista, vi sono tre momenti critici, l’incoronazione, la scena dell’orologio e la morte di Boris, nei quali si cerca di trovare la risposta all’angosciosa domanda se fu davvero Boris a uccidere lo zarevič. Il Boris di Ferruccio Furlanetto sembra darci una risposta positiva, divorato dal senso di colpa e dal rimorso, dalla spaventosa visione del “fanciullo coperto di sangue”, che nitidamente anticipa i temi novecenteschi. Furlanetto si immedesima in maniera formidabile, sin dall’inizio è teso e tormentato, ma solo col tempo la sua ossessione diventa insofferente sfiorando quasi la follia. Il suo Boris è un padre amorevole e un sovrano fermo e determinato, che a tratti manca però dell’impronta prettamente russa, ovvero della freddezza del carattere e della crudezza della voce, nonché della chiara dizione della lingua russa. L’impostazione belcantistica della sua meravigliosa voce di basso sembra arrotondare fin troppo le vocali rendendo meno comprensibili le consonanti e di conseguenza non gli permette di insistere nella resa “realistica” del personaggio. Ciò nonostante l’interpretazione è risultata coinvolgente ed espressiva, soprattutto nella scena della morte in cui, tra la raccomandazione al figlio di salvaguardare la patria e le preghiere rivolte a Dio di proteggere i figli, Furlanetto trova la chiave giusta per esprimere quell’orgoglio e quella forza di carattere tipica del popolo russo, e pervasa da un profondo senso religioso.
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