[wide]

[/wide]
Opera • È andato in scena al Massimo di Palermo il nuovo allestimento, tra concerto e rappresentazione scenica, del “poema drammatico con musica” basato sul testo dai rimandi autobiografici di Byron
di Monika Prusak
Q uando nel 1817 George Byron inviò all’editore John Murray il manoscritto di Manfred, ne accentuò il carattere non scenico, definendolo piuttosto un teatro metafisico o “mentale”, la cui eventuale rappresentazione teatrale avrebbe potuto limitarne il carattere immaginario. Si può intuire che anche Robert Schumann ebbe lo stesso intento per il suo Manfred (1852), quando – forse nel rispetto di quanto affermato da Byron – lo definì un poema drammatico con musica, anziché un’opera o un Singspiel. Schumann sottopone quindi la musica al servizio della parola; parola che muove l’immaginazione, parola che sposta l’azione dal mondo reale a quello metafisico, senza l’ausilio di un apparato scenico che possa ridurre il testo a una dimensione terrena e superficiale. Il dramma di Manfred è infatti un combattimento interiore, una prova di resa dei conti con i sensi di colpa da un lato e con il sentimento amoroso dall’altro. Paragonato spesso al Faust, per i suoi contatti con l’aldilà e con il mondo della scienza e della magia, Manfred rispecchia piuttosto gli avvenimenti biografici dello stesso Byron che, reo di incesto con la sorellastra Augusta Leigh, subito dopo il divorzio dalla moglie, scelse l’esilio per sfuggire all’inevitabile scandalo.
La regia di Manfred concepita da Daniele Salvo, andata in scena al Teatro Massimo di Palermo il 4 novembre scorso, sceglie una via di mezzo tra il concerto e lo spettacolo teatrale, lasciando l’orchestra al centro dell’azione e riducendo il movimento scenico all’essenziale. Grazie ai giochi di luce, buio e ombre, accompagnati dai video di Giandomenico Musu sullo sfondo, l’effetto è discreto: fuoco, pioggia, arcobaleni, mare, uccelli in volo nel segno della libertà di pensiero, cascate, montagne, teschi, scheletri e il pentacolo, che oscilla tra significati magici e satanici, ricreano il testo attraverso un caleidoscopio di immagini in movimento. Umberto Orsini è un Manfred vissuto e stanco nella sua inquietudine, che medita e riflette nei lunghi monologhi, ma si mostra sicuro e convincente nei confronti di altri personaggi: notevole soprattutto nella scena con l’Abate di San Maurizio, impersonato da Carlo Valli, che prima della morte inutilmente vuole riportarlo sulla retta via della Chiesa. Disturba non poco il leggio che Orsini usa senza sosta, per cui il monologo interiore non riesce a innalzarsi: nonostante l’eccellente espressività della voce, il pensiero resta come inchiodato.
Efficaci le voci parlate degli spiriti interpretate da Franca Penone, Roberta Caronia, Giuliano Scarpinato e Marcella Favilla, che sussurrano, ridono e si beffano di Manfred, e che ritornano più volte mostrandosi sul palcoscenico con i più svariati insulti. In contrasto ai loro abiti bianchi appaiono i quattro spiriti cantanti in frac: Cristina Melis, la più espressiva, Katia Ilardo, Francesco Palmieri e Alberto Profeta. Sono i geni delle forze naturali: Aria, Acqua, Terra e Fuoco, che si uniscono in un ensemble di voci fresche e affascinanti, in una scrittura corale prettamente bachiana ben delineata da Michele Mariotti alla guida dell’Orchestra del Teatro Massimo. Ben riuscito anche il quartetto dei bassi con Francesco Palmieri, Emanuele Cordaro, Gabriele Sagona e Giovanni Bellavia come solista, che lascia la scena al protagonista pronto a suicidarsi in cima alla Jungfrau alpina. Lo salva Il Cacciatore di camosci, impersonato da Gianluigi Fogacci, preceduto dal timbro nostalgico del corno inglese, il cui suono puro appare a Manfred come una sublimazione della vita e della morte. È splendida la scena con la Fata delle Alpi di Franca Penone (Witch of the Alps nell’originale inglese) sospesa tra le cascate proiettate sullo schermo, ma il culmine del dramma di Manfred viene raggiunto quando il protagonista incontra l’amata Astarte (interpretata da Cinzia Mazzi). Appaiono eccessivamente liriche le ultime scene del Coro, nelle quali Schumann si avvicina alla scrittura drammatica di Händel; risultano, invece, delicati e ben equilibrati i frammenti corali in piano. Mariotti lavora molto sui timbri, sebbene a volte nasconda le sottili dissonanze dei contrappunti, che avrebbero potuto donare all’esecuzione più intensità drammatica. Le musiche di Schumann incantano per la dolcezza, come se tentassero di rendere ideale l’amore insano di Manfred, ma rimangono comunque nell’ombra dell’inarrivabile teatro metafisico byroniano.
© Riproduzione riservata