Concerti • Esecuzione di grande respiro sinfonico per la partitura verdiana diretta da Myung-Whun Chung con l’orchestra di casa unita a quella del Teatro La Fenice; nel quartetto vocale spiccava Daniela Barcellona
di Cesare Galla
A nche se l’aveva chiamata Messa da requiem, Verdi era tranquillamente consapevole che quella non era musica liturgica. E nemmeno da chiesa in senso stretto. Tanto è vero che tre giorni dopo la prima assoluta, nella chiesa di San Marco a Milano (nel primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni: 22 maggio 1874) la Messa fu eseguita alla Scala e da lì partì per una tournée europea di clamoroso successo che toccò l’Opéra-Comique, la Hofoper, la Royal Albert Hall.
D’altra parte, Verdi era un laico vero, oltre che un musicista assolutamente “teatrale”. Il che naturalmente non gli impediva di avere un pensiero religioso in senso lato di fronte alla morte e di ritenere “Santo” (di una religione di cui nulla condivideva, o quasi) l’autore dei Promessi Sposi. E soprattutto, di considerare il testo della Messa per i defunti, e specialmente la grande sequenza del «Dies Irae» che ne è la caratteristica saliente, un’occasione musicale straordinaria.
Quanto bene quest’occasione sia stata sfruttata è evidente anche oggi, dopo quasi 140 anni, visto che il ruvido e fremente Requiem di Verdi non cessa di incontrare il gusto del pubblico. Il quale riconosce e apprezza – è ovvio – gli accenti e i modi dell’autore di tante opere popolari, ma sicuramente non vede in esso un «melodramma in abiti ecclesiastici» come sosteneva il direttore Bülow, che contro il Requiem condusse fin dall’inizio una sua personalissima e perdente battaglia.
Alle prese con un testo che arriva dalle profondità della storia e della tradizione musicale europea, oltre a essere il cardine della liturgia cattolica, Verdi scrive una partitura nella quale la cornice formale è accolta con rigore – ovviamente secondo i canoni del gusto e della pratica ottocenteschi – per essere scardinata dall’urgenza e dalla forza della visione. Il Giorno del Giudizio, per il non credente Verdi, è immaginato come un dramma palpitante al quale non è concesso il balsamo della fede. E i tradizionali passaggi dell’Ordinario, dal «Kyrie» al «Sanctus» e all’«Agnus Dei», sono i luoghi di un esercizio miracolosamente fresco e coinvolgente, nel suo essere impregnati di una sorta di “realismo” che non regala significati altri alle parole, ma ne scava il senso letterale. Il culmine, in questo senso, è nel conclusivo «Libera Me», nel quale non a caso la dottrina polifonica degli antichi studi torna buona con magnifica naturalezza. Qui sta il senso umanistico del Requiem di Verdi: la speranza merita comunque di essere rispettata. Dentro alla frase «Libera me, Domine, de morte aeterna» e alla sua linea melodica franta, tesa, eppure quasi rassegnata, ciascuno può trovare un motivo di consolazione. Che ci creda o meno.
Partitura di plastica evidenza sinfonica e corale, il Requiem ha in Arena una storia esecutiva relativamente breve, visto che per la prima volta vi approdò nel 1966, ma altamente significativa dal punto di vista interpretativo. Lo hanno affrontato infatti, nel giro di una decina di occasioni (e non solo con la formazione di casa: ne è stata protagonista anche la Israel Philharmonic), direttori come Gavazzeni e Muti, Maazel e Mehta, Prêtre e ora Myung-Whun Chung.
Edizione del tutto speciale, quest’ultima: non tanto per il suo ruolo centrale nelle celebrazioni del centenario dell’opera in Arena quanto per la sinergia che ha saputo creare, con l’inedita fusione fra l’orchestra dell’Arena e quella della Fenice, e fra i rispettivi cori (ripresa anche nel cortile di Palazzo Ducale a Venezia). Organico kolossal e serata speciale, a sua volta suggestiva delle atmosfere della «Dies illa tremenda». Lo scultore Igor Mitoraj (del quale al museo veronese di Castelvecchio è in corso una vasta mostra personale) ha segnato il palcoscenico con tre sue opere, il cui classicismo archeologico bene s’intonava, prima ancora che con Verdi, con l’anfiteatro: due teste monumentali reclinate ai lati dell’orchestra, un gigantesco torso mutilo, attraversato da una croce, a sorvegliare gli esecutori dall’alto dell’arco delle gradinate dietro la scena. Paolo Mazzon ha dipinto di luci radenti esecutori e sculture, resistendo quasi sempre alla tentazione del descrittivismo fine a se stesso. Fra i protagonisti si è aggiunto il tempo, in senso meteorologico: vento teso per tutta l’esecuzione, tuoni e fulmini di crescente intensità intorno all’Arena, miracolosamente rispettata dai temporali che ruggivano poco distante. Un atmosfera da Valle di Giosafat per un Giudizio Universale molto terreno.
Chino sul podio tra le raffiche di vento, l’esile Chung ha dominato la partitura nel controllo sovrano del fraseggio e delle dinamiche, spinte non solo al fragore ma anche al sussurro (rischioso all’aperto, ancor più in queste condizioni). C’è un grande respiro sinfonico, nel suo Requiem, ben sostenuto dalla doppia orchestra veronese-veneziana (dopo il «Dies Irae» c’è stato anche un ecumenico incrocio delle prime parti) e con belle aperture timbriche fra legni e ottoni. Alla base, un’idea molto verdiana di rapidità, di concentrazione drammatica, di espressività pronta ad accendersi rapinosamente, di sensibilità lirica nella quale si riconoscono certe estenuate e disperate dolcezze già sentite in Aida e che torneranno in Otello.
Il super coro (maestri Armando Tasso e Claudio Marino Moretti) ha dimostrato esemplare duttilità e propensione ad evitare le perorazioni stentoree quanto sguaiate, mentre il quartetto vocale ha visto in evidenza Daniela Barcellona, dal colore sempre seducente e dalla linea di canto consapevole e meditata, e il tenore Fabio Sartori, sciolto e squillante ma con sorvegliata attenzione. Il basso Vitalij Kowaliow ha voce importante ma a tratti ruvida, gestita con qualche rigidità, mentre il soprano Hui He ha messo in mostra i suoi centri lucenti e solidi, come pure certe già notate difficoltà nella zona alta, sugli attacchi e nella precisione specialmente.
Pubblico discretamente numeroso, a tratti intimorito dal maltempo, con qualche accenno di non motivato fuggi fuggi, prodigo di applausi alla fine, con Chung sorridente a ringraziare gli spettatori non meno che la clemenza del cielo.
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