Le audaci strutture drammaturgiche originali ritrovano vigore nella lettura del regista canadese. Equilibrata la direzione di Rizzi e formidabile il protagonismo di Tiliakos
di Francesco Lora
SOPRATTUTTO I MELODRAMMI STABILMENTE IN REPERTORIO corrono un rischio: quello di essere letti non per la loro effettiva consistenza testuale, ma per ciò che il pubblico si aspetta di trovarvi. Un apostolo di Giuseppe Verdi qual è Riccardo Muti, una volta, ci ha fatto sorridere con un esempio: pronunciando il titolo della Traviata si usa sospirare con flebile pudore, mentre si sta parlando di una prostituta, così come pronunciando il titolo del Trovatore si usa fare voce quarantottesca, mentre si sta parlando di un menestrello. Una serie di equivoci riguarda anche il Rigoletto: ci se n’è accorti, come forse mai prima, assistendo allo spettacolo ora in scena al Théâtre royal de la Monnaie di Bruxelles (13 recite dall’8 al 23 maggio), coprodotto col Festival d’Aix-en-Provence, l’Opéra national du Rhin, il Teatro Bolshoi di Mosca e il Grand Théâtre di Ginevra; regìa di Robert Carsen, scene di Radu Boruzescu, costumi di Miruna Boruzescu, luci di Carsen stesso e di Peter van Praet, drammaturgia di Ian Burton e coreografia di Philippe Giraudeau.
La premessa che fa la differenza: al contrario di tanti e troppi colleghi, registi di vecchia data o improvvisatori, comunque formati o ispirati al teatro di parola, Carsen sa leggere libretto e partitura con occhi e orecchi da musicista, sa mettere a fuoco senza pretesti o abbagli i fondamenti del testo e sa restituire con chiarezza la sua esegesi all’interprete, al melomane, al curioso. Così, per una volta le note di regìa inserite nel programma di sala non sono la solita excusatio non petita di chi si para dietro un dito, illustrando a parole e dall’esterno ciò che il pubblico mai potrebbe arguire, bensì sono la conferma e la memoria di uno spettacolo fatto per mettere a nudo l’opera nella sua letterale crudezza. Non c’è compassione per Rigoletto, non c’è angelicità per Gilda, non c’è taccia morale per il Duca di Mantova.
Senza fallire il colpo e anzi accentuando le strutture drammatiche, l’azione è trasposta ai giorni nostri, nel circo privato di un signore assoluto e dissoluto, che domina questo teatro di vizi da un palco reale. Lì si “domano” spogliarelliste e lì lavora Rigoletto, imprevedibile, irriconoscibile e inquietante dietro la maschera da clown. È un uomo doppio e laido, e un padre egoista e mentitore: il trucco di scena è accuratamente rimosso prima di incontrare Gilda, e la figlia è tenuta come un’eterna bambina ignara del mondo, ossia come un giardino vivente di ricreazione morale: indossa un vestito da bambola, dorme in un lettino minuscolo. Caduto il velo, però, ella scopre quanto le piaccia spalancare le gambe al Duca; e ciò diviene tutt’insieme un’inesorabile vendetta verso il padre, l’adempimento di un destino fissato dalla maledizione, l’unica consapevolezza chiara di un personaggio ingannato sull’identità degli altri, nonché semplicemente il richiamo erotico agli istinti di natura: sulle ultime note dell’atto II, trascinata via dal padre, Gilda vorrebbe infilarsi di nuovo nel letto del Duca, ritrovarlo nudo come lo si è visto lì entrare; e morendo nell’atto III, ella alza gli occhi verso una visione della misteriosa madre: non l’angelo compassionevole poco credibilmente raccontato da Rigoletto, ma piuttosto la prostituta che potrebbe averla abbandonata al gobbo. È una lettura che, per crudezza, coincide col testo letterario e musicale, e che trova sostegno nelle molte riflessioni sparse da Verdi nel proprio carteggio. Ed è un allestimento scenico dove il concetto è senza mezze misure, e dove l’immagine è fascinoso oggetto estetico anche quando rappresenti il covo dello squallore.
Notevole è anche la resa musicale, sia per l’aderenza particolare al discorso registico, sia soprattutto per l’analisi della partitura, messa in atto senza pigrizia o preconcetto. Nella direzione di Carlo Rizzi non si trovano forse colpi di genio, ma l’esecuzione è integrale, il sostegno al canto è attento e le sezioni d’orchestra sono in ammirevole equilibrio. Diffusi problemi di salute hanno rivoluzionato e ricombinato, di recita in recita, le due compagnie di canto, con sostituzioni e inversioni dell’ultim’ora; eppure, la sera del 14 maggio non avrebbe potuto filare più liscia. Il protagonismo di Dimitris Tiliakos è anzi formidabile: se oggi i baritoni usano spesso modi da vilain anche in parti da grand seigneur, egli realizza invece un Rigoletto incisivo ma mai sopra le righe, protervo dove serve ma forbito nel canto, con timbro ed emissione nobilitati da solida tecnica; sa modulare piano ogni volta che ciò sia possibile e accampa in tal modo frastaglio retorico e fraseggi da utopia.
È quindi la volta dello squillante e spigliato Duca di Arturo Chacón-Cruz, tenore maturato rispetto alle recenti recite viennesi dei Due Foscari e disinvolto sia nell’acuta tessitura sia nell’esibire il nudo integrale al termine della cabaletta. Funzionale, puntuale ma non di riferimento risulta invece la Gilda di Anne-Catherine Gillet, la quale recita con partecipazione ma, al cospetto di una parte di calibro lirico, si inserisce suo malgrado nell’insipida e datata tradizione dei soprani leggeri. Sarebbe infine un privilegio trovare più spesso, com’è avvenuto a Bruxelles, uno Sparafucile con gli occhi di brace e la voce di granito qual è quello di Ain Anger, la Maddalena sfacciata e bronzea di Sara Fulgoni e il Monterone perentorio e monumentale di Carlo Cigni. Entusiasmo.
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