
Bertrand De Billy torna sul podio dell’Opera di Stato e dirige un Faust di riferimento stilistico. Pallori ed eccessi contraddistinguono al contrario una compagnia di canto mediocre e un allestimento scenico senza nerbo
di Francesco Lora
ALL’OPERA DI STATO DI VIENNA è ancora fresca la polemica sulla nuova produzione del Lohengrin: il direttore Bertrand De Billy, di casa nel massimo teatro della capitale austriaca, ha lasciato le prove rifiutandosi di apportare uno stolido taglio richiesto dal tenore protagonista e benedetto da regista e sovrintendente. Pochi giorni appena, e De Billy è di nuovo su quel podio, per tre recite del Faust di Charles Gounod dal 2 al 10 maggio. Specialista del repertorio lirico francese dell’Ottocento pieno, lì egli sa lavorare con rara autorevolezza insieme con orchestra e coro: all’Opera di Stato, si sa, di norma si va in scena senza prove musicali, confidando nel magistero tecnico delle maestranze; ma col proprio gesto De Billy sa evocare all’istante timbri volatili di sapore liberty, fraseggi ricalcati sullo stile e persino sulla fonetica francese, un accompagnamento di duttilità e vivacità sorprendenti. L’artiglieria dei Wiener Philharmoniker e certa usuale grossezza del coro divengono qui il più profumato dei bouquet. Spiace allora a maggior ragione che, per il gusto di tornare al discorso sui tagli, l’opera sia presentata senza il balletto: così la si tiene in repertorio a Vienna, dove pure è a disposizione un corpo di ballo eccellente, e tutto torna circa la recente presa di posizione del direttore parigino.
Per il resto, è la cronaca di uno spettacolo nato sotto maligna stella. Già da alcune settimane la compagnia di canto era stata abbandonata dalla stella Anna Netrebko, improvvisamente risoluta a togliere la parte di Marguerite dal proprio repertorio. Le è subentrata Sonya Yoncheva, con la sua voce di peso lirico e ben proiettata, lievemente tremula, decorosa nell’ornamentazione, chiara per natura e artificialmente scurita per uso e abuso di copertura del suono: da lei viene il miglior canto e la recitazione più misurata. Accanto le sta l’anonimo Faust di Piotr Beczala, arido e opaco nel timbro, monocorde nel porgere, fioco nel registro centrale e affannato in quello acuto, con squillo solo nelle note a effetto opportunamente preparate. Al triste bollettino si aggiunge un’esecrabile pronuncia del francese, infernalmente condivisa da Erwin Schrott come Méphistophélès: sempre sopra le righe in ogni nota, in ogni gesto, in ogni parola, egli è istrione alla maniera dei bulli di quartiere, ed è così a suo modo irresistibile ma estraneo allo spirito dell’opera; per forza della natura, la voce c’è, è tanta e ha ancora velluto da vendere; ma la tecnica è quella che è, sufficiente per cantare tutto forte ma non per saper modulare un piano o per passare di registro senza ingolfarsi.
Declinante con onore è invece Adrian Eröd nella parte di Valentin: canto sfumato, pronuncia valida, personaggio meditato; peccato che nel volgere di un decennio – quando, per esempio, lo si ascoltava come Guglielmo in Così fan tutte o nella medesima opera di Gounod – il timbro abbia perso tanto smalto e l’emissione tanta brillantezza. Funzionale il resto, da Stephanie Houtzeel come Siébel ad Aura Twarowska come Marthe, fino a Jongmin Park come Wagner di insolita e ammirevole imponenza vocale. Dopo appena sei anni di vita e 22 recite, infine, lo spettacolo con regìa di Nicolas Joël e Stéphane Roche, e con scene e costumi di Andreas Reinhardt e Kristina Siegel, già in origine sobrio fino all’inconsistenza, è oggi ripreso stancamente, sin quasi a far passare inosservata la trasposizione ottocentesca e senza contribuire alla psicologia dei personaggi. L’unica deroga è nella caratterizzazione di Méphistophélès, dove il diavolo è beffardo e vanitoso, strafottente all’indirizzo di chi cerchi d’intimorirlo con l’ostensione di croci improvvisate o con spruzzi d’acqua santa, e che può fare il segno della croce senza nulla temere: ma qui gioca molto l’esuberanza a briglie sciolte di Schrott, e indicarlo come anima teatrale dello spettacolo sembra rimedio peggiore del male.
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