Un insolito dittico in scena al Teatro Regio. Il regista Andrea De Rosa convince molto con Suor Angelica, ma Goyescas è soggetto debole drammaturgicamente, che nemmeno l’ottima direzione di Donato Renzetti e l’eccellente cast possono riscattare
di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
SPESSO ABBIAMO LETTO DI SAGGI E ARTICOLI tendenti se non a screditare certo a ridimensionare la grandezza della pucciniana Suor Angelica con distinguo e riserve (talora capziose): il soggetto ritenuto debole da alcuni, soprattutto l’obiettiva difficoltà di rendere in maniera convincente l’apparizione finale della Vergine con tanto di «chiesetta gremita di angeli» e via elencando. In realtà, se messa in scena con intelligenza, in presenza di un valido cast e un direttore comme il faut, Suor Angelica si rivela tuttora per quello che è: a dir poco un capolavoro con una figura di donna che campeggia in maniera magistrale, giganteggiando – pur con le dovute differenze, ça va sans dire – non meno di Manon e Mimì, Tosca e Cio-cio-san, per non dire della tenera, commovente Liù. Certo, mancano le grandi arie e gli squarci lirici a tutto campo. Ma che importa? C’è una quantità di delizie sonore che da sola basterebbe a fare la grandezza di Puccini; una capacità di introspezione psicologica a dir poco esemplare, una copiosa messe di trouvailles timbriche perfettamente azzeccate, una lucidità di scrittura che anticipa profeticamente gli esiti scopertamente modernisti dell’incompiuta Turandot e molto altro ancora (grazie anche al libretto di singolare concisione, pregnanza e bellezza dovuto alla penna di Giovacchino Forzano).
Al Regio di Torino la si è vista in scena (a partire da giovedì 15 gennaio 2015) in un validissimo allestimento in co-produzione con Maggio Musicale Fiorentino e San Carlo di Napoli. Eccellente la regìa di Andrea De Rosa che, arbitrariamente, certo, ma in maniera efficace e convincente, ha scelto di ambientare l’opera non tanto in un monastero quanto in una casa per alienate mentali – vagamente richiamando la regia di Richard Jones per il Covent Garden nel 2011 – alienate cui le suore prestano cure per lo più distratte e un po’ ruvide (e allora via con scene crude, la camicia di forza che giunge ad ingabbiare le effusioni di una giovane ricoverata e altri gesti prescritti a delineare un mondo di squallore ed emarginazione, la stessa brutalità con la quale le converse con ripugnante connivenza sottopongono a Suor Angelica sconvolta e come in trance il documento estorcendole una firma quasi coatta), ma anche gesti trepidanti; e allora la stessa Suor Angelica che alla giovane “incamiciata” riserva invece un caldo abbraccio, e già in apertura l’emozione delle giovani converse che dalle finestre scrutano il momento magico, al tramonto, in cui la fontana del giardino per pochi giorni soltanto sarà indorata dai raggi del sole primaverile.
De Rosa firma anche la scena unica, intenzionalmente uno stanzone un poco claustrofobico in luogo dell’en plein air previsto dal libretto, una lugubre grata a tutto campo con un cancello, a rendere il passaggio dal dentro al fuori del parlatorio cui accede la proterva zia Principessa, giunta per far firmare un atto di ripartizione del patrimonio dopo sette lunghi anni di black out completo della famiglia, ma anche volto a suggerire l’orto con le erbe mediche. Scelta arbitraria, dicevamo, ma del tutto efficace. Bene, benissimo, arci benissimo aver omesso nel momento clou del delirio di Suor Angelica di far apparire la Vergine: forse si poteva evitare di farla suicidare attingendo farmaci letali – un cocktail di psicofarmaci in luogo del decotto di fiori velenosi nella ciotola di terracotta – rovistando in maniera compulsiva dall’armadietto dei medicinali, ma, occorre ammetterlo, la scelta è in linea con le opzioni della regia che ha evitato di seguire con rigore le scrupolosissime didascalie (niente cimitero, chiostro, cipressi, chiesetta e va bene così).
Forse si è un po’ troppo insistito questo sì, esagerando ed enfatizzando il dimenarsi in maniera scomposta delle alienate, tutto qui. Ma aver posto tra le mani di Suor Angelica una bambola di pezza mi è parso un tocco di realismo pienamente condivisibile (bene i movimenti scenici di Michela Lucenti), ottime le luci di Pasquale Mari, per lo più livide – quella lampada espressionista da film anni Venti, sulla sinistra – (ma col tocco primaverile dei finestroni irradianti luce calda e dorata). Coerenti e del tutto funzionali i costumi di Alessandro Ciammarughi.
Successo personale enorme per Amarilli Nizza che ha dato voce a Suor Angelica con accenti toccanti (appena qualche segno qua e là di stanchezza vocale), una presenza scenica a dir poco magnifica. Lungamente applaudita alla fine (da parte di un pubblico – vergogna – piuttosto rarefatto, la sera della prima). L’apice emozionale, manco a dirlo, in «Senza mamma», di fatto l’unico momento effusivo in tutta la partitura dalla soverchia bellezza. Molto bene Anna Maria Chiuri nel ruolo della algida e impassibile zia Principessa (superbo e da brivido il momento in cui comunica con notarile monocromia, più ancora con fredda e boriosa alterigia e con sprezzante durezza la morte del bimbo innescando il delirio di Suor Angelica). Ottimo il coro (tutto al femminile), istruito da Claudio Fenoglio, ovvero tutte allineate su un buon livello le varie suore, infermiera, zelatrice, Genovieffa, badessa, Osmina, Dolcina previste dal libretto. Impossibile soffermarsi sulla performance di singoli personaggi (bene aver evitato bozzettismi e pittoreschi quadretti, ancorché in questo allestimento dai tocchi geniali ogni figura abbia la sua precisa collocazione scenica ed il suo specifico profilo, il chiacchiericcio delle converse e le loro insinuanti congetture sul passato di Angelica, i diversi piani psicologici della suora zelatrice e dell’infermiera, della badessa e delle cercatrici, il promettente clima di attesa che si sprigiona all’annuncio che una ricca carrozza è in attesa dinanzi al convento e via dicendo). E allora l’elenco (parziale) delle suore stesse: Valeria Tornatore, Silvia Beltrami, Damiana Mizzi, Claudia Marchi, Maria Di Mauro, Nicoletta Baù, Maria de Lourdes Martins. Dal podio l’esperto Donato Renzetti ha governato l’orchestra con una precisione ed uno scrupolo esemplari, ponendo in luce una quantità incredibile di dettagli timbrici e armonici senza mai perdere di vista il colpo d’occhio. Con pianissimi da manuale e amalgami di ottima qualità nei pochi momenti di efficaci clangori, ben assecondato da un’orchestra in gran forma.
In abbinamento a Suor Angelica – che molto opportunamente sempre più spesso viene estrapolata dal Trittico (ed è giusto così, dacché il dramma intimista della donna rinchiusa dalla famiglia in convento per le sue “colpe” poco ha da spartire con le divertenti schermaglie di Gianni Schicchi e meno ancora col verismo torbido del pur convincente Tabarro) al Regio si è vista, per la prima volta a Torino, Goyescas di Granados. E, spiace doverlo ammettere – avevamo riposto grandi attese e speranze – si è rivelata opera drammaturgicamente deludente. Spettacolo, beninteso, bellissimo sul piano scenico, De Rosa e Ciammarughi hanno fatto un lavoro stupendo volto a restituire con scrupolosa, quasi filologica attenzione e precise riconoscibilissime citazioni (El pelele, Majia desnuda eccetera), la ricchezza policroma ed espressiva dei quadri del sommo, visionario pittore spagnolo cui l’opera deve il motivo dell’ispirazione. E questa è certo una ragione di vanto di tale allestimento. Un po’ scomposti se non talora sgangherati i movimenti coreografici, ma a mostrare la corda è l’inconsistenza della vicenda: manca un vero e proprio plot, non solo, l’esordio tutto folklore e bagno di ritmi e melodie iberiche con gli scherzi e il gioco del pelele evolve poi verso la tetraggine cupa del tragico epilogo siglato dall’esito ferale di un duello. E potrebbe anche starci, ma manca il pathos; la tensione viene meno – inesorabilmente – e la musica di Granados, pur carezzevole, dapprima, poi più melanconica, convince solo in parte, denunciando la sua natura di originale pianistico. Insomma ci vuol altro per trasporre in spettacolo teatrale una pur magistrale raccolta di pagine per tastiera impregnate di humus spagnolo.
I cantanti (tutti assai validi) han fatto invero del loro meglio: il soprano Giuseppina Piunti (la dama Rosario), il tenore Andeka Gorrotxategui (Fernando), il baritono Fabián Veloz (Paquiro il torero), la stessa Anna Maria Chiuri (Pepa, ragazza del popolo) pur tuttavia l’opera stenta a decollare lasciando alla fine l’amaro in bocca: salutata da un successo di stima e da applausi convinti alla bravura degli interpreti, all’acribia della direzione e, soprattutto, al mirabolante côté scenico.
Ottima la direzione di Renzetti, ma non è bastata a riscattare il tutto. E, per restare in ambito iberico, veniva da pensare invece ai capolavori di De Falla (il Sombrero, innanzitutto, ma anche la verista Vida breve) che sono ben altra cosa ed hanno assai più elevata capacità di coinvolgimento. Resta il piacere intellettuale di aver visto rappresentata un’opera rara e defilata e, dunque, al Regio di Torino il merito di averla proposta. I veri capolavori, infatti, ci appaiono tali – mi perdonino i lettori l’ovvietà della riflessione – anche, se non soprattutto, grazie al raffronto con pagine pur valide che tali, però, non sono.
Ottimo commento, come sempre. E come sempre però io risulto un po’ più acido…
http://operaincasa.com/2015/01/21/goyescassuor-angelica/