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Breve ritratto del cantante scomparso a ottantasette anni. Tra classica, jazz e contemporanea: una storia che vive ancora oggi
di Michele Manzotti
DALLA CLASSICA AL JAZZ e ritorno. Forse Ward Swingle non si era reso conto a suo tempo della rivoluzione che stava preparando. Perché senza cambiare una nota ai brani di grandi compositori, a partire da Bach, Mozart fino ai romantici, aveva dato una svolta alla prassi musicale fondendo i due generi nei dischi che lo vedevano protagonista grazie a un gruppo vocale chiamato Swingle Singers. Fino ad avere l’attenzione di compositori che stavano dando nuova linfa alla classica, come Luciano Berio.
Swingle, nato a Mobile in Alabama il 21 settembre 1927 e scomparso il 19 gennaio 2015 nella città inglese di Eastbourne, è stato uno dei primi musicisti che in tempi non sospetti aveva sperimentato la contaminazione con la classica senza dichiararlo come manifesto ideologico, ma mettendola in pratica con un gruppo da lui stesso ideato e che fino a oggi, con una formazione mutata nei numeri, continua a portare il suo nome. Una prassi per lui che era quasi nel destino, a partire da quel nome di lontana origine svizzera che conteneva la parola Swing.
Per continuare con gli studi classici al conservatorio di Cincinnati in Ohio e proseguiti a Parigi sotto la guida del pianista Walter Gieseking. Per concludersi con le esperienze nella canzone (è turnista durante le incisioni di Edith Piaf) e nel jazz con i progetti Blue Stars of France e Les Double Six. La formula venne perfezionata all’inizio degli anni Sessanta con l’ideazione dei Les Swingles Singers, gruppo con due soprani, due contralti, due tenori e due bassi a cui si aggiunsero contrabbasso e batteria. Jazz Sébastien Bach (Bach Greatest Hits nella versione americana) del 1963 conteneva esclusivamente le musiche del compositore tedesco, ma questo non impedì all’album di scalare le classifiche grazie al traino delle radio fino alla vittoria ai Grammy Awards. Gli altri dischi degli anni Sessanta su vari autori furono un successo dopo l’altro.
Fu il già citato Luciano Berio a capire le potenzialità della formazione scrivendo per loro la Sinfonia nel 1969 con la prima esecuzione affidata al gruppo e alla New York Philharmonic. Quando Swingle decise di chiudere l’esperienza in Francia, trasferendosi in Inghilterra, iniziò a sperimentare varie strade per far diventare più ampio il repertorio del gruppo, completamente rinnovato sotto il nome di Swingle II e The New Swingle Singers. E al di là della musica popolare e del jazz, ci fu il ritorno ai madrigali, ad autori come Debussy, Britten, Ravel, Vaughan Williams, ma soprattutto ci fu il consolidamento con i compositori contemporanei. Non solo Berio (ricordiamo A-Ronne), ma anche Azio Corghi, che negli anni ha sfruttato le potenzialità delle voci, Ben Johnston e la sua microtonalità, Pascal Zavaro. Lasciando il gruppo negli anni Ottanta, Swingle pose comunque le basi perché gli Swingle Singers, diventati un gruppo a cappella, ottenessero un successo duraturo proprio grazie all’ampiezza del repertorio. E nonostante il suo domicilio tra Parigi e Stati Uniti, con la base della formazione in Inghilterra, la sua figura di consulente musicale rimase qualcosa di più di un incarico onorario.