Il percorso trasversale del compositore estone, nato l’11 settembre 1935 | Molte le iniziative editoriali per l’occasione: l’Ecm pubblica Musica selecta, Accentus a breve The lost Paradise e La Passione di Adamo| Il principio del Tintinnabulum è diventato il suo marchio di fabbrica. Ecco come e perché, partendo dal Cantus in memory of Benjamin Britten
di Gianluigi Mattietti foto © Kaupo Kikkas/Ecm records
IL CASO DI ARVO PÄRT è quello di tanti compositori che hanno attraversato la fase dell’avanguardia, per poi approdare a un linguaggio molto personale, e comunicativo. Nato in Estonia nel 1935, ha vissuto un primo periodo creativo di tipo neoclassico, all’inizio degli anni Cinquanta, molto influenzato da Prokof’ev e da Šostakovič. Poi è entrato in contatto con la musica seriale, e la musica aleatoria, mostrando una certa predilezione, come nel caso di Krzysztof Penderecki, per gli effetti di choc che possono derivare dall’impiego di grandi masse sonore.
Ha sperimentato una tecnica radicale di Perpetuum mobile su basi matematiche, e dei procedimenti di collage, che lo hanno portato a riscoprire diversi autori del passato, da Bach a Satie, ma anche il canto gregoriano, le pratiche isoritmiche dell’Ars Nova francese, il contrappunto dei fiamminghi, in una ricerca che si è fatta sempre più solitaria, lontana dalle rotte dell’avanguardia, anche molto influenzata dalla sua profonda spiritualità e dal legame con la chiesa ortodossa. È così che è approdato infine al principio del Tintinnabulum, un principio tanto elementare quanto radicale (una melodia che si muove intorno a una nota centrale, come una corda di recita, contornata da note della triade) che è diventato il marchio di fabbrica della sua musica. Un linguaggio “minimal” e molto personale, dalla forte carica evocativa, basato sempre su un materiale essenziale, sul silenzio, su suoni pulsanti e ricchi di risonanze, una polifonia depurata da ogni ridondanza e caratterizzata da una radicale semplificazione delle strutture armoniche. Uno dei lavori che hanno segnato questa svolta, e tra i più noti, è il Cantus in memory of Benjamin Britten, per orchestra d’archi e campane, composto nel 1977.
Quando scrisse il Cantus in memory of Benjamin Britten Pärt viveva ancora in Unione Sovietica, dove la sua musica non era molto amata. Nel 1980 ottenne il permesso di emigrare in Israele con la moglie (di origine ebrea) e i due figli. Ma non arrivarono mai a destinazione. Si fermarono prima per un lungo periodo a Vienna, poi a Berlino, dove tuttora il compositore risiede
Il compositore ricorda così l’effetto che fece su di lui la notizia della morte di Britten: «Negli anni passati abbiamo dovuto piangere molte perdite nel mondo della musica. Perché il giorno della morte di Benjamin Britten – il 4 dicembre 1976 – mi ha toccato così nel profondo? A quel tempo ero evidentemente arrivato a comprendere l’immensità di questa perdita. Era nato in me un inspiegabile senso di colpa. Avevo riscoperto Britten, e poco prima della sua morte ho cominciato ad apprezzare l’insolita purezza della sua musica – ho avuto l’impressione della stessa purezza che c’è nelle ballate di Guillaume de Machaut. Ho anche desiderato incontrarlo di persona – ma non era destino». Pärt concepisce dunque questo Cantus come una breve trenodia, e la costruisce con semplici materiali diatonici, ma con il medesimo rigore della musica seriale, tanto da essere stato definito come «un’ingegnosa dichiarazione di guerra all’atonalità». Tutto si basa infatti su una scala discendente di la minore, che si ripete ciclicamente prolungandosi progressivamente di una nota (quindi: la; la-sol; la-sol-fa; la-sol-fa-mi ecc.), e che viene sgranata su un pattern ritmico altrettanto elementare, un ritmo trocaico dato dalla successione di una lunga e di una breve (come nel primo dei modi ritmici della Scuola di Notre Dame, nel XII secolo).
Questa scala viene eseguita simultaneamente dalle cinque parti dell’orchestra d’archi, ma con cinque velocità diverse, come un vero e proprio canone mensurale, basato sul rapporto 1:2:4:8:16 – legato al registro nel quale si muovono le scale (dal valore 1 che corrisponde ai violini primi, al valore 16 che corrisponde ai contrabbassi). Queste scale si muovono anche attraverso diverse gradazioni dinamiche, con un progressivo crescendo che porta dal pianissimo iniziale (ma con la linea delle viole in evidenza) a un fortissimo (fff) collocato a circa la metà del pezzo, e con un graduale ritorno al pianissimo alla fine. Gli elementi “fissi” di questa costruzione sono le note delle triade di la minore, tenute come pedali negli archi (e basate sulle stesse mensurae delle scale), e i radi rintocchi dell’unica campana tubolare, intonata sul la, che accentuano il carattere funebre del pezzo. Il processo ciclico delle scale (che crea anche l’effetto illusorio di una discesa infinita) procede inesorabile fino a quando tutti gli strumenti raggiungono il proprio limite grave nelle battute finali, su un unico grande accordo tenuto di la minore, prolungato da una risonanza della campana, dall’effetto molto misterioso.
Quando scrisse il Cantus in memory of Benjamin Britten Pärt viveva ancora in Unione Sovietica, dove la sua musica non era molto amata. Nel 1980 ottenne il permesso di emigrare in Israele con la moglie (di origine ebrea) e i due figli. Ma non arrivarono mai a destinazione. Si fermarono prima per un lungo periodo a Vienna, poi a Berlino, dove tuttora il compositore risiede. E fu a Berlino che Pärt compose il Canto del Pellegrino (Ein Wallfahrtslied), ispirandosi ancora una volta a un lutto che lo aveva toccato da vicino: la scomparsa di Grigori Kromanov (1926-1984), uno dei più importanti registi di cinema e di teatro in Estonia. «Quando il mio amico Grigori Kromanov morì nel luglio del 1984, fu come un fulmine a ciel sereno. Improvvisamente una crepa invisibile si era aperta tra noi due – io era ancora nel mondo del tempo, lui era già in una sfera senza tempo. Il mio pezzo è un tentativo di superare questo insormontabile divario attraverso un gesto gentile, un saluto. Questi due mondi, il qui e l’aldilà, volevo fonderli nella musica, come due strati contrastanti – questa idea è stata all’origine del pezzo. Da un lato c’è il dinamismo e la mobilità dell’orchestra, dall’altro la natura statica delle voci maschili, ridotte a una singola altezza, con la serenità di una montagna. Voglio alzare il mio sguardo vero le montagne …». Questo breve pezzo fu composto nel 1984, originariamente per tenore (o baritono) e quartetto d’archi, e quindi trascritto, nel 2001, per coro maschile e orchestra d’archi (in questa versione è stato eseguito a Tallinn il 7 aprile 2001 con la Tallinn Chamber Orchestra e il Coro da camera estone, diretti da Tõnu Kaljuste); è stato anche usato dal regista Denys Arcand per la colonna sonora del film Le invasioni barbariche del 2003.
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In Ein Wallfahrtslied Pärt mette in musica il testo, in tedesco, del Salmo 121, dando al pezzo una forma ancora estremamente semplice: gli otto versetti del salmo sono divisi in due sezioni corali (di quattro versetti ciascuna) separate da un breve interludio orchestrale e incorniciate da un’introduzione e da una conclusione. Nei due episodi corali i versetti biblici vengono intonati in maniera statica e ripetitiva, con una scrittura corale monodica e monofonica, che ricorda la salmodia: nella prima sezione i soli baritoni intonano un mi, nella seconda sezione i soli tenori intonano un si, solo con un piccolo accenno antifonale dato dalle risposte dei bassi sull’ultima parte del sesto versetto («noch der Mond des Nachts»), e sull’ultima parte del versetto finale («von nun an bis in Ewigkeit!»). Sullo sfondo di queste parti corali c’è una lieve trama orchestrale che mescola insieme i pizzicati delle viole, i tremoli dei violini, brevi pedali dal carattere drammatico, figure di crome come dei trilli en ralenti. Più elaborate e cariche di pathos sono le tre sezioni strumentali, che rivelano la matrice cameristica dell’originale, nel loro ordito soffice (tutto con sordina), cromatico, piena di sottili fluttuazioni dinamiche: l’introduzione ha una struttura a ventaglio, con una linea discendente dei bassi che si contrappone a una progressione melodica ascendente affidata ai violini, fatta di cellule di due o tre note, inframmezzate da pause, che le conferiscono un tono dolente, come un pianto; il breve segmento che separa i due interventi corali è invece dominato da una melodia senza fratture, dal profilo discendente, molto in rilievo (in fortissimo e con un tempo più veloce) e piena di pathos; la sezione strumentale conclusiva è di fatto una ripresa delle due sezioni precedenti (l’interludio seguito dal preludio) che culmina nel registro acuto con l’aggiunta di quattro battute, in pianissimo (pppp), nelle quali scompaiono i bassi e la melodia si proietta sugli armonici dei violini – come per superare un’ideale montagna.
Arvo Pärt rimase fedele al principio del Tintinnabulum anche se lo declinò in una grande varietà di soluzioni, aumentando, soprattutto nelle composizioni più recenti, le possibilità di trasformazione del materiale di partenza, e imprimendo caratteri espressivi più marcati rispetto al rigore minimalista degli inizi. Un vero impatto drammatico, lontanissimo da atmosfere contemplative, ha ad esempio Orient & Occident, composto tra il 1999 e il 2000 su commissione dei Berliner Festspiele, ed eseguito per la prima volta alla Kammermusiksaal di Berlino il 30 settembre 2000 (con l’Orchestra da camera lituana diretta da Saulius Sondeckis). Anche Orient & Occident si ispira a un testo sacro, in questo caso al Credo della messa (uno dei pochi testi usati sia dalla chiesa cattolica che da quella ortodossa): ma si tratta di un pezzo strumentale, per orchestra d’archi, con una scrittura strumentale estroversa (Festivo), tutta giocata nella dinamica del forte, priva di intrecci polifonici, semmai monodica, “sillabica”, fatta di blocchi omortimici dai profili molto spigolosi. Pärt si basa su piccole cellule melodiche, ritmicamente asimmetriche, prive di nessi, semplicemente giustapposte. E ne accentua le differenze attraverso improvvise pause di silenzio, bruschi salti di registro (enfatizzati anche, a metà percorso, dall’innesto degli armonici nel registro acuto), alternando le indicazioni esecutive di «espressivo» (e molto vibrato) con quelle di «non vibrato», e gli ampi intervalli dal carattere gestuale con serpeggianti glissati dal sapore vagamente “orientale”. Il risultato è una musica che procede per slanci interrotti e effetti di continue implosioni, e che si conclude su un breve finale (Più lento), quasi una ricapitolazione compressa di tutti gli elementi presentati.
Molte composizioni di Arvo Pärt nascono da precise richieste di interpreti, come lavori occasionali e cameristici, ma successivamente rielaborati per organici più ampi. È il caso sia di Passaccaglia che di Da pacem Domine, dedicate rispettivamente a Gidon Kremer e a Jordi Savall. Passacaglia fu composta nel 2003, originariamente per violino e pianoforte, su commissione del concorso violinistico di Hannover (e il semifinalisti di quel concorso la eseguirono per la prima volta l’11 ottobre 2003). L’anno successivo, per festeggiare il sessantesimo compleanno di Gidon Kremer, Pärt ha rielaborato il pezzo per violino solista (ma la sua parte può essere “splittata” per due violini solisti), vibrafono ad libitum e orchestra d’archi, e in questa veste Passacaglia è stata eseguita alla Ludwigskirche di Saarbrücken il 4 giugno 2007 (con la Kremerata Baltica e Gidon Kremer in veste di direttore e di solista). La parte solistica, tecnicamente impegnativa, prende le mosse da una semplice catena di quinte vuote che poi si trasformano in bicordi e tricordi, si muovono lungo una linea cromatica ascendente, acquistano grande slancio da piccole cellule puntate e alla fine sfociano su virtuosistiche figure arpeggiate. Questo arco, accompagnato da un grande crescendo dinamico, poi si richiude, di nuovo, su un ribattuto in un pianissimo («quasi meccanico») e si conclude alla fine su una breve cadenza solistica, una semplice catena di crome, costruita su una scala armonica di re minore. La partitura di Da Pacem Domine è stata scritta originariamente per coro a quattro voci (o solisti) a cappella, sull’onda emotiva degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Nel 2006 Pärt la ha rielaborata per coro e orchestra d’archi (prima esecuzione a Tallin il 18 maggio 2007, diretta da Tõnu Kaljuste), ma anche per quartetto d’archi, per quartetto di flauti dolci, per orchestra d’archi, e nel 2008 per coro e orchestra (prima esecuzione alla Erlöserkirche di Potsdam il 27 aprile 2008 sotto la direzione di Ud Joffe). Il lavoro si basa su un’antifona gregoriana del IX secolo (antifona pro pace del Commune Beatae Virginis: «Da pacem Domine in diebus nostris quia non est alius qui pugnet pro nobis nisi tu Deus noster»), della quale Lutero fece anche una versione in lingua tedesca, e alla quale si sono ispirati diversi compositori (vedi le messe di Nicolas Gombert e di Costanzo Porta, o i mottetti di Willaert e di Gesualdo da Venosa). Le trascrizioni per orchestra conservano l’eleganza e la purezza dell’originale polifonia a cappella, la sua dimensione ieratica, la geometria della struttura, costruita con pattern semplici, quasi senza variazioni ritmiche, con incastri regolari e misurati di suoni e di pause, con un le note di un accordo di re minore che si intrecciano con lente linee melodiche, dipanate per decime parallele, come antichi falsi-bordoni.
Tra il 1964 e il 1971, nel pieno della sua fase avanguardistica, Arvo Pärt aveva composto tre sinfonie. Trentasette anni dopo è tornato a scrivere una sinfonia, la Quarta, destinata a un’orchestra d’archi, con l’aggiunta di arpa, timpani e un ampio set di percussioni. La proposta di scrivere una nuova sinfonia, da parte della Los Angeles Philharmonic Orchestra, gli venne nel febbraio del 2007, proprio quando il compositore stava lavorando su un antico canone della chiesa slava che conteneva una preghiera all’angelo custode: il collegamento con “Los Angeles” fu irresistibile e divenne anche il titolo della sinfonia, che fu diretta per la prima volta da Esa Pekka Salonen il 10 gennaio 2009 alla Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. Ma c’è anche una dedica in questa sinfonia, che svela un altro importante lato del compositore, quello più impegnato, che lo ha spinto a ribellarsi in passato contro i governi sovietici e oggi contro la politica di Vladimir Putin. Il lavoro è infatti dedicato a Mikhail Khodorkovskij, il cui caso è considerato da molti come un’espio di persecuzione politica. Ex patron della compagnia petrolifera Yukos, da lui trasformata in una delle aziende più efficienti di tutta la Russia, Khodorkovskij era noto anche come filantropo, e come fondatore del movimento “Russia Aperta”. Il suo potere economico, la sua crescente popolarità, le sue ambizioni politiche ne hanno fatto un temibile avversario agli occhi di Putin, soprattutto perché – come sostiene il filosofo francese André Glucksmann che lo paragona a un nuovo Sakharov – contrastava l’idea di monopolio statale delle risorse energetiche, usato da Putin come strumento di ricatto verso l’Occidente. Così la Yukos è stata smembrata, e Khodorkovsky processato per frode nel 2005 e spedito in carcere in Siberia.
Arvo Pärt – che nel 2006 fu anche molto indignato per l’omicidio di Anna Politkovskaya, e aveva stabilito che tutte le esecuzioni di sue musiche durante la stagione 2006-07 fossero dedicate alla memoria della giornalista russa – ha chiesto di pubblicare questo commento in occasione di ogni esecuzione della sua Sinfonia n.4: «[…] con la mia composizione vorrei tendere una mano al prigioniero e con lui a tutti coloro che sono reclusi in Russia senza diritti. Dedico la mia Quarta Sinfonia a Mikhail Khodorkovskij, augurandogli la pace interiore, nonostante le circostanze nelle quali si trova; niente di più è in mio potere. Non so se gli sarà possibile ascoltare la composizione. Tuttavia spero che il mio piccione viaggiatore, raggiunga un giorno la remota Siberia». La sinfonia (che ingloba un breve pezzo per archi e percussioni composto nel 2008 col titolo “These Words …”), molto più estesa rispetto alle prime tre, è costruita come una trama lentissima, basata su semplici armonie e textures molto trasparenti che ne accentuano la dimensione contemplativa. Dei tre movimenti in cui si articola, il primo (Con sublimità) si apre con una lunga fascia degli archi, in pianissimo e in un registro sovracuto, punteggiata dall’arpa e dagli archi gravi, poi dai crotali. Al centro del movimento emerge invece una sezione fortemente ritmica (Marcando con maestà), dominata da un tema tragico, scandito con forza da tutta l’orchestra.
Il movimento si chiude su una coda soffusa (Pacato) nella quale affiorano “bolle” cantabili, di nuovo in pianissimo e separate da lunghe pause, con i pizzicati degli archi gravi che sottendono un incedere da marcia funebre. Introdotto da due scarni bicordi della marimba, il secondo movimento (Affannoso) si basa su una frase di sette note, in pizzicato, reiterata con diverse varianti, e su una linea degli archi, carica di tensione e di lirismo, che si espande progressivamente verso l’acuto. Due rintocchi dei crotali introducono la seconda parte del movimento (Un poco più affannato), più frammentaria, fatta di disegni che si sfibrano sempre di più fino all’affiorare di un tema intensamente lirico (doglioso), quasi mahleriano, che è una variante del tema lirico della prima parte. Nel terzo movimento emerge invece una melodia acutissima del violino solo (Con intimo sentimento) – introdotta da due accordi dell’arpa, un po’ alla Sheherazade –, una melodia “parlante” e dal profilo discendente che innesca un fitto dialogo di brevi incisi melodici, come un grande mosaico che investe gradualmente tutta l’orchestra. Il movimento si conclude con una lunga coda (Deciso), introdotta da rintocchi di crotali e campane, scandita dal severo passo di marcia dei contrabbassi e dei timpani, che si trasforma in una trama densa, aspra e stridente (per le dissonanze, le tessiture tessiture acutissime e gli armonici dei violini primi), per poi dissolversi alla fine, quasi perdendosi in lontananze siderali.
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