Al Covent Garden la Royal Opera House mette in scena una produzione, con il debutto registico dell’italiano, che fa molto discutere per una scena di stupro. Il teatro cambia succesivamente il grado di censura della visione
di Cesare Galla foto © Tristram Kenton
DUE ANNI FA, AL ROSSINI OPERA FESTIVAL, il pubblico che entrava in teatro per assistere a Guillaume Tell con la regia di Graham Vick era accolto da un sipario che sembrava un murale, un grande graffito nel quale un enorme pugno chiuso si levava su uno sfondo rosso sangue. Magari qualche privato mugugno di natura politica allora c’è stato, ma del resto non si può negare che l’ultima opera di Rossini abbia un tema storico-politico: la vicenda realmente accaduta della liberazione della Svizzera diventa una sorta di apologo sulla capacità dell’uomo di ribellarsi al suo destino e di contrastare la tirannia, la violenza, la prevaricazione, guidato dall’anelito alla libertà. Lo spettacolo di Vick raccontava tutto questo con misurato simbolismo, grande nitidezza scenografica, in un contesto novecentesco più ideale che politico, molto lontano dall’idea di un “compagno Tell”.
Molti pubblici mugugni, invece, anzi una forte contestazione che dalla sala dove si rappresenta, il Covent Garden di Londra, è subito tracimata sul web e sui social, sta suscitando un altro Tell attualizzato in chiave novecentesca, quello firmato da Damiano Michieletto, che compie così il suo burrascoso debutto alla Royal Opera House.
Il problema non è la trasposizione cronologica della vicenda – del resto abituale e si potrebbe dire “organica” allo stile del quarantenne regista veneziano – ma una specifica scena del terzo atto, quella delle Danze (capolavoro dentro al capolavoro rossiniano) durante la festa paesana, che poi sfocia nel celebre episodio in cui Tell è costretto dagli invasori e oppressori della Svizzera a tirare una freccia alla mela posta sadicamente sulla testa del figlioletto.
Nella versione di Michieletto, secondo quanto riportato dalle cronache della prima, la festa si trasforma ben presto in quella che i giornali inglesi hanno descritto come una “prolungata, gratuita e realistica” scena di “gang rape”, ovvero di stupro di gruppo. L’abuso è commesso dai soldati asburgici guidati dal loro comandante Gesler, che usa la pistola non solo come arma, ma anche come “giocattolo erotico”. Alla prima, immediati e sonori i “buu” del pubblico. Il critico del Guardian Tim Ashley ha stroncato lo spettacolo. Nel sottolineare che Michieletto è atteso di nuovo al Covent Garden l’anno prossimo per la regia di Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo, ha concluso lapidario: “Prospettiva allarmante”. L’ondata di proteste in Rete ha visto anche richieste di tagliare la scena incriminata; la Royal Opera House, dopo qualche iniziale imbarazzo, si è schierata con il regista veneziano, appoggiandone le scelte. Sui tagli, lui ha ribadito che non se ne parla proprio.
È probabilmente impossibile trovare negli spettacoli firmati da Michieletto – da sempre – un allestimento che non sia caratterizzato dalla volontà di riscattare l’opera lirica dalla sua polverosa tradizione. Non solo e non tanto con una banale “attualizzazione” delle trame, ma cercando sempre, con innegabile coerenza, di rivisitarla – quale che sia – utilizzando un linguaggio visivo contemporaneo, familiare al pubblico di oggi. In molti casi, l’attualizzazione è spinta fino al postmoderno, ma si sono visti spettacoli mirabili (come la Gazza Ladra di Rossini, al festival di Pesaro 2007, premiata dalla critica musicale italiana come migliore spettacolo dell’anno) nei quali l’attualizzazione della vicenda passa in secondo piano rispetto alla stringente capacità di costruire la drammaturgia musicale attraverso immagini “moderne”, ovvero in realtà senza tempo.
Dai resoconti londinesi pare di capire che il Tell del Covent Garden appartenga a questa seconda categoria. Quanto a Michieletto, non nega che la scena contestata sia dura e fa benissimo a difendere la sua scelta, la sua autonomia e le sue convinzioni. Ma si difende male quando (come in un’intervista al “Corriere della Sera”) invita tutti a rileggere il libretto e a coglierne il senso per giustificare le sue scelte. Perché allora bisognerebbe ricordargli che oltre al libretto esiste – da esso indissolubile – anche la musica, e bisognerebbe chiedergli se ritiene che la musica scritta da Rossini per le Danze sia “compatibile” con una scena di stupro di gruppo. O più in generale con un realismo che è stato considerato sospetto di strizzare l’occhio a certo cinema action-trash.
Ma poi, le infinite e stucchevoli discussioni sulla regìa d’opera, presuntamente spaccata fra passatisti e iconoclasti, hanno fatto il loro tempo. Il nocciolo della questione è un altro, molto più semplice: a prescindere dallo stile, dai “progetti”, dal linguaggio per immagini dei registi, i loro spettacoli finiscono come sempre per essere essenzialmente di due tipi, quelli riusciti e quelli non riusciti. Secondo gli inglesi, pubblico e critica, questo Guillaume Tell appartiene alla seconda categoria. Ammesso che sia così, non per questo devono rotolare teste o devono partire i tagli.