Nuovo ed elegante allestimento per il titolo di Donizetti. Un plauso per la direzione di Francesco Lanzillotta, successo per Mariella Devia, Sonia Ganassi, Stefan Pop
di Attilio Piovano foto © Marcello Orselli
DAVVERO GHIOTTA L’OPPORTUNITÀ offerta dal Carlo Felice di Genova, con la messinscena di un titolo se non proprio raro, certo oggi di non frequente circolazione e si tratta del donizettiano Roberto Devereux. Aver messo in cartellone in un nuovo ed elegante allestimento siffatta opera, datata 1837 che con l’antecedente Anna Bolena (1830) e Maria Stuarda (1834) costituisce una sorta di organica ‘trilogia inglese’ di soggetto storico (la trilogia delle regine), fa senza dubbio onore al Carlo Felice: rivelando la lungimiranza di una programmazione artistica non appiattita sui soliti e consolidati titoli di repertorio. E fa piacere constare come la sera della prima, giovedì 17 marzo 2016, il teatro fosse gremito. Si tratta di partitura eccellente, ça va sans dire, orientata sul filone romantico (e dunque in sintonia con la tragicità, per dire, di una ben più nota ed universalmente riconosciuta Lucia di Lammermoor). Solo il primo atto, a ben guardare, soffre di qualche eccessiva lungaggine, ma a partire dal secondo, conciso, drammaturgicamente pregnante ed efficace, è tutto un crescendo, un vero e proprio climax emotivo, con l’incalzare fatalistico degli eventi, infine il vero clou col finale ineluttabile in cui la solitudine della regine giganteggia, regalando non poche emozioni.
[restrict paid=true]
E allora innanzitutto un plauso all’ottima e sapiente direzione di Francesco Lanzillotta che ha saputo conferire eleganza estrema anche a quei passi della partitura (pochi a dire il vero) dove il gap tra ritmi balzanti di cabalette ed altro nazional-popolari, vistosamente pre-verdiani, e la pregnanza tragica del testo potrebbe ingenerare un certo disagio. Tempi robusti e baldanzosi dove occorre, ma anche molte e opportune sottolineature sul versante del pathos romantico evitando l’effetto sgradevole e ‘bandistico’ che con altre direzioni qua e là rischia di emergere. Ben assecondato dall’orchestra del Carlo Felice in buona forma (con prime parti eccellenti, gli ottimi fiati, gli ottoni misurati ed eleganti), Lanzillotta ha fraseggiato con cura estrema, imprimendo i giusti tempi. Assai appropriato l’apporto del coro, che ha parte tutt’altro che irrilevante in quest’opera di sicura presa e di innegabile spessore drammaturgico, coro ben istruito da Pablo Assante.
Enorme il successo personale della specialista Mariella Devia nel ruolo sopranile della Regina Elisabetta: ha voce tuttora freschissima e intatta, sa sfoderare pianissimi di raffinata bellezza, suoni filati magnifici, il suo virtuosismo poi è sempre ineccepibile. Allora che gioia ascoltarla in «L’amor suo mi fe’ beata», quindi «Ah ritorna qual ti spero» giù giù sino al sublime, conclusivo e davvero toccante «Quel sangue versato al cielo s’innalza!» (a voler essere ipercritici appena qualche piccola asprezza qua e là, ma è una parte di tale e impervia difficoltà…). Di grande presa la sua performance attoriale, poi, specie nel finale dove la sua personale solitudine, il suo sgomento, la disperazione e lo scoramento estremi sono resi sul piano vocale magnificamente da Donizetti. Disperazione che la Devia ha saputo rendere palpabile, nelle estreme propaggini dell’opera, dopo il colpo di cannone che segna tragicamente l’ormai inevitabile condanna di Devereux.
Alla Devia ha ottimamente tenuto testa il mezzosoprano Sonia Ganassi nel ruolo della rivale Sara, e lo si capiva che sarebbe stato un successo già fin dalle due arie iniziali intrise di pathos e del tutto simmetriche (entrambe festeggiatissime a fine serata con lancio di fiori e ovazioni). Anche qui, non solo vocalità di bravura, bensì mezze tinte sfumature, insomma consumata perizia vocale e attoriale e, conseguentemente, un meritato successo di pubblico.
Nel ruolo maschile del protagonista Roberto Devereux (cui si deve il titolo dell’opera) ha giganteggiato il tenore Stefan Pop, voce autorevole, possente e icastica, talora fin troppo (con qualche piccolo e veniale eccesso di enfasi). Solida tecnica e vocalità appropriata. Bene anche sul piano scenico (apprezzato il duetto «Quest’addio fatale estremo» che chiude l’atto primo). Molti gli applausi anche in «Come uno spirto angelico» e «Bagnato è il sen di lagrime» che sono poi i luoghi topici del suo ruolo. Forse non del tutto adatta la voce del baritono Marco Di Felice nei panni del poco simpatico (anzi francamente perfido) Duca di Nottingham. Beninteso, si tratta di professionista valido ed esperto, pur tuttavia ha convinto solo in parte, soprattutto frequentemente tendeva a ‘scappare’ con intemperanze ritmiche che hanno un poco disturbato. Discreti i comprimari Alessandro Fantoni e Claudio Ottino nei ruoli di Lord Cecil e Sir Gualtiero.
La regìa di Alfonso Antoniozzi si è fatta apprezzare per la fedeltà al testo, senza inutili innovazioni e stramberie, al contrario pulita e lineare, funzionale alla vicenza. Efficaci, parimenti, le scene essenziali e fastose al tempo stesso (o meglio, atte a rendere il fasto dell’ambientazione regale) di Monica Manganelli; molto belli i costumi (tradizionalissimi) di Gianluca Falaschi. Nelle scene elementi di palcoscenico a vista, come proiettori e reticolati, sul centro una piattaforma circolare e poi movimenti a vista: tra tutti molto di impatto quello per l’arresto di Devereux che viene ‘rinchiuso’ in scena, rinserrato entro una prigione resa semplicemente con grate recate in loco dalle guardie e accostate, sì da rendere una torre (poco comprensibile invece la presenza di un giullare che aggiunge sì colore, ma stona un po’ con la vicenda tragica).
Tra i momenti di maggior emozione nel second’atto la condanna di Roberto. Bene i mimi convocati per l’occasione. Di rilievo nel finale il fondale che da viola si fa rosso a rendere palpabile il senso del sangue più volte evocato nel libretto. Un’ultima annotazione ci sia concessa, e riguarda la bruttezza del libretto, con espressioni che rischiano il comico involontario, «Tacete o Lordi», per dire, (dove ovviamente si fa riferimento ai Lord italianizzati, ma in italiano ‘lordo’ significa un’altra cosa) per non parlare della «serica ciarpa» che non si capisce bene se debba essere cerulea a o trapunta d’oro. Di per sé niente di nuovo rispetto allo standard di melodrammi di tale epoca dove «è sculta la sua condanna» (e sculta sta per scolpita, decisa, stabilita), si trova normalmente. Infine, risibile capolavoro di – come dire – doppio senso fonetico, «lo sospingesti nell’avello»: cantato di filato, come è giusto (e meno male che ci sono i sopra titoli) si percepisce «nel lavello» (sic) come dire al lavandino, e innesca ben più di un sorriso ironico, per di più in un momento sommamente tragico da cui lo straniamento del tutto.
Ma qui non si tratta certo di fare le pulci al libretto non eccelso di Cammarano, bensì di registrare il successo innegabile dell’allestimento genovese che si avvale di un secondo cast (con Natalia Roman, Elena Belfiore, William Davenport e Mansoo Kim che si alternano nei ruoli principali ai protagonisti recensiti più sopra), da citare poi anche il direttore Giorgio Bruzzone che subentrerà per la sola ultima replica. Successo vivissimo e applausi protratti a fine serata. Solamente cinque le recite complessive, sino al 29 marzo.
[/restrict]