Successo per il Classical Music Festival. La bellezza e l’universalità dell’arte uniscono pubblico e interpreti
di Attilio Piovano
UN BEL COLPO D’OCCHIO DAVVERO, a Torino le coreografiche quinte barocche di piazza San Carlo gremita di pubblico. Oltre 120 mila presenze, avvertono gli organizzatori, per il Festival di Musica Classica (edizione 2016) promosso dalla città. Dopo il successo di Butterfly, dal 13 al 17 sono state altre cinque sere di emozioni per un pubblico tanto vasto quanto composito e variegato, più attento, partecipe ed entusiasta. E questo non può che far bene alla musica ed alla città.
E dunque sul palco allestito dinanzi alle chiese di San Carlo e Santa Cristina si sono alternate l’OFT (cui spettava il compito di inaugurare e chiudere sul versante sinfonico) poi la blasonata OSNRai e ancora l’Orchestra del Regio. Il 13 il clou è stato con la spumeggiante ‘Italiana’ di Mendelssohn, sul podio Giampaolo Pretto che (avvicendandosi con Alberto Mattioli) ha curato altresì accattivanti e succinte presentazioni divulgative dei concerti stessi (presenze solistiche di Roberto Rossi in Haydn e Miriam Prandi in Saint-Saëns, Concerti per tromba e per violoncello).
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Poi la sera del 14 il direttore uscente dell’Orchestra Rai, Juraj Valčuha ha diretto con la consueta, rara finezza e capacità di introspezione la suite dallo straussiano Rosenkavalier e la conturbante Danza dei sette veli dalla Salome, che ha sedotto tutti; ma la temperatura emotiva era destinata a salire ancora (e dire che in piazza faceva freschetto…) quando Valčuha ha attacco il primo di una serie di smagati Valzer e Polke di Johann Strauss, il re dell’intrattenimento viennese fin de siècle. A Nizza, in quella stessa sera, si compiva l’immane tragedia della strage di vittime innocenti. E allora è comprensibile con quanta commozione l’intera piazza abbia ascoltato la Marseillaise, la sera seguente, in apertura del concerto dell’Orchestra del Regio, con la cinematografica Sinfonia ‘Dal Nuovo Mondo’ di Dvořák, che Donato Renzetti ha eseguito con esuberante allure nei movimenti estremi e nel pimpante Scherzo, cesellando con intensità il palpitante Largo; poi a seguire il poema Finlandia del nordico Sibelius e la pirotecnica Ouverture da Candide dell’indimenticabile ‘Lennie’ Bernstein.
Compostezza e rinnovata commozione ancora la sera del 16 quando la piazza ha applaudito Valčuha nel fuori programma, l’Intermezzo dalla pucciniana Suor Angelica, introdotto da toccanti parole del direttore stesso e dedicato alle vittime di Nizza. La serata si era aperta con pagine di Romeo e Giulietta di Prokof’ev, aveva poi idealmente lambito la Russia caucasica con le seducenti Danze Polovesiane del ‘compositore-scienzato’ Borodin, quindi i suggestivi Pini di Roma di Respighi (e pazienza se i Pini del Gianicolo sono un po’ svaniti nell’aria, poi per le legioni della via Appia hanno ristabilito l’equilibrio fonico). Da ultimo l’immancabile Boléro raveliano che Valčuha esegue come sempre con calibratissima misura e la necessaria, trascinante verve che strappa l’applauso incontenibile.
Finale col botto domenica 17 con la violinista Suyoen Kim nell’impervio Concerto di Čajkovskij (tecnica agguerrita, ma un po’ fredda e priva di magnetismo), poi la fuoriclasse Chloe Mun che nel Secondo di Rachmaninov ha sbaragliato (pianista di altissimo livello, ha tecnica perfetta, gusto, garbo, bel tocco, insomma tutto: e riesce perfino a rimettere in asse l’orchestra). Da ultimo una scelta dalle pirotecniche Danze slave di Dvořák affrontate con esuberanza dall’OFT. Mentre la piazza si svuotava la sensazione era che la bellezza ed il messaggio universale insito nella musica siano destinati a prevalere rispetto alla barbarie. È quanto in moltissimi strenuamente continuiamo a credere. Così pure lo si percepiva nell’entusiasmo di un pubblico folto che nei pomeriggi ha affollato i cortili di alcuni tra i più blasonati palazzi della Torino barocca, in occasione di un Festival a 360 gradi che ormai da anni è diventato l’ideale ponte tra le ‘normali’ stagioni durante l’anno ed il settembrino MiTo, ormai alle porte (o quasi).
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