di Silvia D’Anzelmo
Il sipario del San Carlo si apre sulle geometrie fredde e inospitali della reggia degli àtridi: ieraticità e cemento come moderna cristallizzazione di un antico mito; questa la scelta visiva dello scenografo Anselm Kiefer per l’Elektra di Richard Strauss: un’istallazione che occupa l’intero spazio scenico e rende perfettamente quell’operazione di risemantizzazione e riappropriazione del mito fatta nel 1909 dal compositore e dal drammaturgo Hugo von Hofmannsthal. La rappresentazione si pone in perfetta coerenza concettuale con l’opera sia a livello scenico che nella regìa asciutta ed essenziale di Klaus-Michael Grüber, ripresa da Ellen Hammer. Il teatro partenopeo, quindi, fa una scelta molto accurata nel riproporre un allestimenti di altissimo livello, già vincitore del premio Abbiati nel 2003: uno spettacolo unico, coerente, intenso nato da una lettura trasversale del racconto inteso da scenografo e regista come cristallizzazione di un dolore ancestrale talmente ossessivo da divenire prigione mentale e psichica per la protagonista (ma non solo).
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L’enorme edificio labirintico, posto su tre livelli, dà perfettamente l’idea della cristallizzazione quasi alienata, di un meccanismo psicologico bloccato nella rabbia che si esplica nell’opposizione tra il desiderio di vendetta di Elektra e la colpa di Klytämnestra. Il colore livido del cemento è intervallato da porte aperte che lasciano solo intravedere l’interno dell’edificio creando una significativa dialettica tra spazio aperto e chiuso: lo spettatore, come Elektra, è prigioniero al di fuori della reggia, ossia di quello che dovrebbe essere la casa, luogo di serenità, degli affetti familiari e che invece è il luogo della violenza e della colpa; lo spazio aperto, invece, appartiene a Elektra, la detentrice della memoria del padre che deve vendicare per mondare lo spazio interno, la parte più profonda e segreta della psiche.
Perfetta la scelta dei costumi che sottolinea ancora di più l’opposizione tra vuoti e pieni: le ancelle, Chrysothemys e Klytämnestra vestono un bianco che non ha nulla di positivo, è freddo e privo di vita, solo Elktra si distingue con le sue vesti sudicie, sporche di vita vera. L’opposizione con Klytämnestra è immediata, ella entra in scena come simulacro della regalità di cui si ammanta, avvolta da un rigido mantello che le impedisce i movimenti rendendoli meccanici e innaturali; solo quando Elektra riesce a far leva sulle sue paure, Klytämnestra esce dal suo involucro e chiede aiuto per uccidere i demoni che la perseguitano durante la notte ma è solo un attimo, alla fine del dialogo tra le due donne, la notizia della presunta morte di Orest le permette di irrigidirsi nuovamente nelle sue vesti di regina.
Le luci di Guido Levi sottolineano ogni passaggio drammaturgico con attenzione e intensità: la scelta di porre in mano alle ancelle delle torce è di grande efficacia, soprattutto nelle scene di concitamento e nella danza finale di Elektra; ella viene illuminata nella sua estasi da mute ancelle immobili come statue le quali retrocedono solo quando la morte della protagonista sotto il peso della felicità è oramai avvenuta. Unico appunto riguarda le scene di omicidio di Klytämnestra e poi di Aegisth sottolineate da flash luminosi che sembrano voler accompagnare l’evento e amplificare la violenza presente in orchestra con l’unico effetto di distaccare fortemente lo spettatore rispetto all’accaduto –intento del tutto lecito se non fosse che nel resto dell’opera l’uso delle luci è totalmente differente.
Passando alla vocalità, l’opposizione voluta da Strauss nelle parti di Klytämnestra, Elektra e Chrysothemys è perfettamente rispettata nella prova dalle tre cantanti: il canto violento, brutale e disperato di Elektra è reso con grande padronanza da Elena Pankratova che domina letteralmente la scena e gli altri personaggi con aggressività quasi selvatica, come si addice al suo personaggio; totalmente opposta, è la figura della mite Chrysothemys, una donna normale che non pensa alla vendetta, che si adagia nella sua vita e sogna un marito, dei figli, la sua è la parte più aperta alla liricità cantabile che viene resa con grade espressività emotiva da Manuela Uhl; nel caso di Klytämnestra, il nervosismo nevrotico e scabro è reso dall’interpretazione tagliente di Renée Morloc. Abbiamo poi i personaggi maschili: perfetta e poderosa la prova di Robert Bork nei panni di Oreste, così come quella di Michael Laurenz in quelli di Aegisth.
Insomma, uno spettacolo davvero di grande levatura, curato nei minimi dettagli e che trova il suo trait d’union nella direzione di Juraj Valčuha capace di trarre il meglio dall’orchestra del Teatro San Carlo: anche qui volumi sonori che si alternano in pieni e vuoti perfettamente controllati e gestione accurata di timbri e dinamiche con focus sui vari strumenti che guidano l’ascoltatore in questo labirinto tragico.
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