di Monika Prusak foto © Rosellina Garbo
Siamo piuttosto abituati alle esecuzioni di opere liriche in forma di concerto, ma decisamente meno alla situazione contraria, quando una composizione destinata ad essere eseguita senza apparato scenico diventa un vero e proprio spettacolo teatrale. Cosa ciò può comportare? Da una parte è del tutto naturale il senso di sconvolgimento nello spettatore, in prima battuta visivo, che può essere vissuto in modo ambivalente. Dall’altra, trattandosi di un adattamento musicale, ci si deve aspettare un po’ di movimento insolito sul palcoscenico, tra luci, scene e regia. Altrimenti che spettacolo teatrale sarebbe? Qual è il significato di un simile adattamento? Alla base della reinterpretazione di un’opera antica, molto famosa e per questo potenzialmente esposta al rischio di un fallimento, si pone sempre la ricerca di uno sguardo fresco e attuale, di una nuova espressione, in questo caso teatrale.
[restrict paid=true]
Pippo Delbono osa di intaccare il “santo” Bach, padre di tutti i musicisti, dio assoluto della fuga e dell’oratorio. È proprio così, la musica di Bach non ha nessun bisogno di un apparato scenico addizionale oltre agli strumenti e alle voci, protagonisti indiscussi delle sue Passioni. Ma Delbono decide di ricercare nel testo, di adattarlo non solo alle scene, ma persino ai ricordi della sua infanzia: alla fede in Dio di sua madre e alla paura che Dio suscita in lui stesso. In lui o nel suo stesso personaggio, perché il regista rimane in scena per tutta la durata dello spettacolo. È lì a leggere il copione, coprendo eccessivamente i solenni corali bachiani – complice il volume mal calibrato dell’audio –, ad accompagnare, vestire e svestire i suoi personaggi, a indicare la strada al coro. È proprio lui ad avvolgere le spalle di Pietro di una talare rossa da cardinale e a farlo diventare Pilato: uno sdoppiamento di caratteri inatteso, che segnala una netta presa di posizione. È, infine, lui a schioccare la frusta – mentre Gesù rimane immobile –, come simbolo sonoro penetrante della flagellazione. L’effetto è agghiacciante, perché la musica si ferma, tanto da far protestare qualche spettatore in platea. Ma Delbono non si arresta e continua il suo difficile racconto sulla paura, sul tormento della morte «quando tutto è compiuto», facendo morire accanto a Gesù due immigrati inginocchiati e bendati con la fascia nera. È una «voce nel deserto», cruda e attuale, che qualcuno liquida a spettacolo concluso con un lungo fischio, singolo e fuori luogo.
La regìa riesce effettivamente a coprire la musica, la adegua alle proprie esigenze, ma, anche se a tratti vorremmo protestare, è proprio quello che normalmente avviene in uno spettacolo di teatro musicale. La voce del regista va a neutralizzare persino alcune parti vocali dei solisti, perché il tormento interiore aumenta con l’avvicinarsi della morte. Lo spettatore rimane stupito, assistendo a questa lunga riflessione in scena, che continua a disturbare l’esecuzione, come se il regista non riuscisse a fermare il tumulto dei propri pensieri. I tecnici spostano gli oggetti scenici a sipario aperto mentre i solisti cantano. La regìa di Delbono è metateatrale, poiché la Passione si svolge nella sua mente, mentre la ascolta rileggendo il libretto. Quello a cui assistiamo vuol essere un dramma personale che aspira all’universale.
Tutto questo non sarebbe possibile senza una esecuzione musicale adeguata e pensata nei minimi dettagli come nell’interpretazione meditata di Ignazio Schifani. L’orchestra del Teatro Massimo in un organico limitato segue il maestro fedelmente, appoggiata sul sostegno prezioso di Francesco Galligioni (al violoncello barocco e alla viola da gamba) e di Basilio Timpanaro (all’organo). Schifani sceglie una Passione movimentata dal suono insolitamente leggero, per cui la musica si innalza dando più sostanza all’idea registica. Si avverte qualche difficoltà iniziale nella puntualità del numerosissimo coro del Teatro, insicurezza che svanisce successivamente quando il coro viene diviso in gruppi. È brillante l’idea di coinvolgere nella performance il Coro di voci bianche, preparato alla perfezione da Salvatore Punturo, coro che affianca l’orchestra nella buca e viene utilizzato nei corali dedicati alla preghiera. La dicotomia tra il suono celeste e puro dei ragazzi e il timbro maturo, vibrato e deciso dei cori accusatori in scena crea diversi livelli sonori interessanti, rendendo la composizione più fresca e diversificata.
I personaggi della Passione in abiti da cocktail vengono situati intorno a un lungo tavolo centrale con tredici posti, come quello dell’Ultima Cena di Leonardo (costumi di Alberto Cavallotti; scene di Renzo Milan). Ma vi si siede soltanto Gesù, impersonato da Ugo Guagliardo, in giacca bianca e a piedi scalzi, solo, distante e un po’ assente. La voce grave di Guagliardo rende al meglio l’austerità del personaggio, mentre la sua interpretazione scenica si rivela alquanto distinta. L’Evangelista, recitato con maestria da Nathan Vale, è una presenza costante, che dialoga con i pensieri del regista. Gli altri interpreti appaiono all’occorrenza, tra cui la fanciulla, Magd, che in un’esecuzione ironica della sua aria, svela una particolare intesa con Gesù. Marleen Mauch ha una voce squillante e cristallina; nell’aria “Ich folge dir gleichfals” dedica a Gesù alcuni sguardi invitanti, ma lui rimane immobile e insensibile alle sue avances. Il riferimento a Maddalena diventa ancora più forte nella seconda aria, “Zerfliesse, mein Herze”, in cui la ragazza si presenta spettinata e scalza, quasi fosse in preda a una sbornia dopo una festa, a piangere un Gesù ormai morto. Non esaltano le esecuzioni del controtenore Nils Wanderer e del tenore Alessandro Luciano. Toccante e profonda la creazione di Giorgio Caoduro in Pietro e successivamente in Pilato, che abbraccia i due ruoli cruciali della Passione, uniti in maniera simbolica dall’interpretazione di Delbono.
Accanto ai cantanti in scena si esibiscono gli attori della Compagnia di Pippo Delbono, con a capo Bobò, attore sordomuto che appare sulla tomba di Gesù a rendergli omaggio con una sorta di lamento funebre. Lo spettacolo vede tra i protagonisti anche gli attori della Compagnia Teatrale “Ciclope” dell’Ente Nazionale Sordi – Sezione Provinciale Palermo e i volontari della Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte. La Passione in versione scenica è stata allestita in coproduzione con il Teatro d’Opera di Roma e il Teatro San Carlo di Napoli.
[/restrict]