di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Riccardo Chailly a Milano, Myung-Whun Chung a Venezia, Daniele Gatti e Antonio Pappano a Roma, Fabio Luisi a Firenze, Juraj Valčuha a Napoli e Omer Meir Wellber a Palermo: pur in tempi di crisi economica e culturale, l’Italia delle fondazioni lirico-sinfoniche se la cava nient’affatto male, quanto a risalto planetario di direttori musicali. Dall’elenco mancano Bologna e Torino, e una stessa situazione lega il loro attuale stallo. Scaduto il proprio contratto quinquennale, il più talentuoso dei giovani direttori italiani, Michele Mariotti, doveva infatti lasciare il Comunale felsineo per passare al Regio piemontese: una scelta libera a fronte di un rinnovo garantito, finalizzata all’incremento dell’esperienza personale; e una scelta senza dubbio sofferta: l’identità stessa delle maestranze del Comunale e il ritrovato entusiasmo del suo pubblico si sono stretti, negli ultimi anni, soprattutto intorno alla figura familiare, industre, giovane e capace di Mariotti. Ma il rinnovo della direzione del Regio – non è un segreto, nell’ambiente – ha consigliato all’ultimo momento un passo indietro, così che due teatri italiani rimangono ora involontariamente vacanti di direttore musicale, mentre Mariotti stesso è finito per non reggerne alcuno. Mentre la stagione 2019 del Teatro Comunale va ad aprire con Il trovatore (recite dal 22 al 29 gennaio), alla mente battono e ribattono le ultime occasioni d’incontro tra l’istituzione emiliana e Mariotti: occasioni seguìte con voracia, ammirazione e affetto, intorno a lui, tanto da chi sedeva in sala quanto da chi teneva il palcoscenico.
Lacrime al primo e al più ufficiale degli arrivederci, il 29 novembre scorso, nello spazio sussidiario dell’Auditorium Manzoni. Un concerto con un programma quotidiano, senza fronzoli celebrativi, suddiviso tra la Sinfonia n. 3 di Brahms e la Sinfonia n. 9 “Dal nuovo mondo” di Dvořák: un Mariotti quasi anch’egli in reverente ascolto del sommo Johannes nel primo caso, e un Mariotti al contrario eccitatore di fuochi d’artificio agogici e timbrici nel secondo. Da un capo all’altro, ecco l’Orchestra del Teatro Comunale lavorare con tutta l’anima, come accade nelle occasioni che non si ripetono, ed ecco l’abbraccio incredulo dell’uditorio a una guida musicale amata in modo fraterno. Non è forse stato un concerto ineccepibile dal punto di vista tecnico: l’emozione, quando c’è, fa i suoi giusti scherzi; ma è risaltato con un sorriso il percorso fatto insieme, nella civiltà del fare arte prima che nella sua sofisticazione. Giusto pochi giorni prima, il 21 e il 25 novembre, Mariotti e l’Orchestra e il Coro del Teatro Comunale erano stati a Rimini per partecipare agli eventi inaugurali del ricostruito Teatro Galli: e anche in quell’occasione i bolognesi in platea non si contavano, lì venuti per accompagnare l’amato direttore. Ciò, a dispetto di un programma già noto ai loro orecchi: l’Ouverture e le danze del Guillaume Tell di Rossini, e lo Stabat mater del medesimo, in un’esecuzione mai stata, da parte di Mariotti, altrettanto composta e classica, come accade per pudore quando si sta per lasciare gli amici e la conversazione tutto richiede fuorché essere lasciata su toni infervorati.
Voci. Nello Stabat mater cantavano quelle di Salome Jicia, Veronica Simeoni, Paolo Fanale e Mirco Palazzi; un assortimento onesto e solido, meno sfarzoso che altre volte, ma con la caratteristica delle compagnie poste sotto la concertazione di Mariotti: quella di porre mano a un vocabolario retorico comune e perseguire insieme, in un lavoro di squadra ove il punto di forza individuale poco conta, un’interpretazione condivisa e connotata da un amichevole ascolto reciproco. Mariotti la sa lunga di voci, canto e cantanti; per meritata stima, questi ultimi faticano a dirgli di no: più di una volta, a Bologna, si è sospettato che le locandine – non solo quelle dei suoi spettacoli – dovessero i loro nomi migliori a un’intermediazione del direttore musicale. Un’intermediazione non per forza effettuata con un colpo di telefono: basta talvolta l’aura di un direttore carismatico per invogliare gli artisti a bazzicare il suo teatro e sentircisi a casa. Questo è parso il caso anche della Fille du régiment di Donizetti data al Comunale tra il 9 e il 15 novembre. L’allestimento era quello, efficace benché vecchiotto, con regìa di Emilio Sagi. Ma la direzione era quella di Yves Abel, capace di giocare con ironia sul deliberato grandoperismo dei “numeri”. E i protagonisti toccavano a due stelle vicine a Mariotti: Marie era Hasmik Torosyan, sempre più matura nel mestiere e toccante nel porgere, con un’encomiabile varietà di colori e un’invidiabile facilità virtuosistica; mentre Tonio era Maxim Mironov, maestro non solo nel dar luogo a un carattere di simpatica tenerezza, ma anche nel puntualizzare la levità di stile richiesto.
Saluto a Mariotti con l’ultima opera diretta in ruolo a Bologna: Don Giovanni di Mozart, dal 15 al 23 dicembre. Inopportuno l’allestimento fattogli trovare: questo firmato da Jean-François Sivadier, con scene di Alexandre de Dardel e costumi di Virginie Gervaise, proviene dal Festival di Aix-en-Provence e – visto il disinteresse per le sottigliezze del libretto e la preferenza per sterili controscene – parla secondo un teatro di regìa alla francese il quale non ha ragione di attecchire su una scena italiana. Per comprenderne l’esilità concettuale, è istruttivo vedere entrambe le compagnie: il rispettivo lavoro è così dissimile nelle risorse e così antiteticamente mirato, da smascherare l’assenza di una vera idea portante (ogni idea pare infatti sostituibile) e la confidenza nelle risorse personali (l’attore, lasciato solo, risolve da sé). Simone Alberghini e Vito Priante formavano una prima coppia Don Giovanni – Leporello all’insegna delle smaglianti doti vocali di ciascuno, con un’interazione piuttosto timida; la seconda coppia, al contrario, era perfettamente coesa e complementare grazie al vulcanico Alessandro Luongo e al buffo Omar Montanari. Si imponeva la Donna Anna di Federica Lombardi, dai mezzi tanto importanti quanto duttili, nonché quella di Ruth Iniesta, virtuosa insospettabile in un fisico da Zerlina. La Jicia, temperamentosa Donna Elvira, sembrava già mettersi avanti per la Semiramide che verrà al prossimo ROF, mentre Fanale ha sfrattato, da bravo italiano, la tradizione di un Don Ottavio querulo, stimbrato ed evanescente.
Su tutti e su tutto è rimasta vigile la direzione di Mariotti. La quale è valsa un capolavoro di equilibrio tra archi e fiati, e con passo svelto ha indagato tuttavia così minuziosamente i controcanti, da sospendere quasi analiticamente il tempo nella testa dell’ascoltatore più attento (chi non lo è, al contrario, lamenterà un gesto tardo; cosa che, orologio alla mano, non è stata). Al Teatro Comunale di Bologna, mentre sta per aprirsi il sipario sul Trovatore e su un nuovo corso, il fratello Mariotti manca già moltissimo.