L’allestimento scenico di Wilson, già servito a Parma per il rifacimento francese del capolavoro verdiano, è ora ripreso a Bologna per la sua originale e ben più nota stesura italiana. Se la parte teatrale non si cura delle differenze tra le due versioni, quella musicale passa dalla forbitezza festivaliera alla mediocrità routinaria
di Francesco Lora foto © Lucie Jansch
È soprattutto per far valere il proprio diritto d’autore che Giuseppe Verdi, quattro anni dopo aver dato alle scene Il trovatore, ne licenziò un fortunato rifacimento francese tradotto in Le trouvère. Si trattò non solo di voltare il libretto in un’altra lingua e aggiungere venticinque minuti di balletto: tra tagli, ritocchi e nuove idee, ne uscì soprattutto mutato l’equilibrio tra i due personaggi femminili, con un’Azucena sempre più incombente, fatale e menzionata, e con una Léonore al contrario più brillante e meno eroica. L’ultimo Festival Verdi di Parma ha predicato tale versione francese in sei recite al Teatro Farnese, adottando per la prima volta la partitura restaurata nell’edizione critica a cura di David Lawton, e affidando un nuovo allestimento a Robert Wilson (regìa, scene e luci; costumi di Julia von Leliwa). Inutile girarci intorno con troppe parole, essendo tutto andato secondo aspettativa: da Wilson si è avuto uno spettacolo di inconfondibile alto design illuminotecnico, interessato all’autoreferenza delle atmosfere assai più che allo studio della drammaturgia; e a dimostrarlo in un gioco di stasi attoriale è stata soprattutto la soluzione per il balletto: non una coreografia, ma un’anti-coreografia, di fatto un’installazione indifferente ai diversi momenti musicali e alla (debole) analogia con il dramma, consistente in un allenamento e scazzottata di pugili con i guantoni rossi a interrompere le tinte fredde.
Lo stesso allestimento è stato coprodotto con il Teatro Comunale di Bologna, che per l’inaugurazione della stagione 2019 – altre sei recite dal 22 al 29 gennaio – se ne è però avvalso onde portare in scena l’italianissimo Trovatore. Il fantasma parmigiano e la declinazione felsinea motivano alla recensione congiunta. A partire da ciò che si osserva, ossia da un immutato Wilson: come se egli nemmeno s’accorgesse di due diverse drammaturgie. Al punto che la cabaletta di Leonora nell’atto IV, stralciata nella versione francese e ricomparsa in quella italiana, a Bologna diviene un mero accodamento all’immobilità che la precede. E al punto che l’anti-coreografia sopra descritta non sparisce con il balletto stesso, ma è eseguita tal quale in un silenzio interrotto da irregolari rumori, a dimostrazione che nulla le era più superfluo della danza, della musica e di Verdi. Diverte quasi, allora, notare come intorno all’atarassia del regista-designer si divarichino due atteggiamenti musicali antitetici: la forbitezza festivaliera di Parma e la mediocrità routinaria di Bologna. Al Farnese v’era sul podio un Roberto Abbado nel solito stato di grazia, intento non solo a far conoscere le varianti francesi di un’opera arcinota, ma anche a emendare le parti in comune dalla pigrizia della tradizione: una lezione di stile che diveniva anche una lezione di tecnica per l’Orchestra e il Coro del Teatro Comunale lì ospitati.
Le stesse maestranze trovano ora l’antitetico Pinchas Steinberg, che affronta Verdi secondo la tradizione globale del dopoguerra, senza veruna attitudine da esegeta e falciando le riprese di cabaletta. Che gli stia a cuore «Ah sì, ben mio, coll’essere», lo dimostra con un continuo richiamo di controcanti; che gli stia a cuore «D’amor sull’ali rosee», lo dimostra invece con allentamenti a senso unico: essi potrebbero essere sostenuti solo da chi possieda l’arte dei filati alla maniera di Montserrat Caballé; ma della Señora, beninteso, non v’è traccia. Leonora è Guanqun Yu: preparata con zelo orientale, poco incline alla sfumatura, ben dotata in mezzi vocali; più centrata era la sua omologa parmigiana, Roberta Mantegna, atta a sgravare Léonore nel lirismo puro. Il Manrico di Riccardo Massi gode di simpatia timbrica: ma per aver chiaro cosa siano accento, fraseggio e personaggio, occorre tornare con la mente al Manrique di Giuseppe Gipali. Munito ma grezzo era il Comte de Luna di Franco Vassallo, in difficoltà con il francese; munito ma grezzo è ora il Conte di Luna di Vasily Ladyk, in difficoltà con l’italiano. A Parma Nino Surguladze era un’Azucena vellutata, signorile ed enigmatica; a Bologna torna a essere la scomposta zingara benedetta dalla tradizione. Più smalto e volume che stile e misura nel Fernand/Ferrando di Marco Spotti, anch’egli comune alle due città, alle due versioni, ai due spettacoli.