di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
La ripresa autunnale dei concerti sinfonici alla Scala non poteva contare su un appuntamento più indovinato, con un Riccardo Chailly (intercettato perfettamente dall’orchestra) in stato di grazia che affrontava un programma davvero temibile anche perché evocava diversi confronti. Il teatro aveva visto cimentarsi Muti e Barenboim nelle sinfonie di Beethoven e ancora riecheggiano serate mahleriane indimenticabili che ebbero come protagonista Claudio Abbado. Affrontare oggi un nuovo ciclo beethoveniano non è impresa facile e sarebbe sciocco pensare che un direttore come Chailly si sia preso in carico questo compito solamente perché si trattava di un must irrinunciabile nel curriculum di un Direttore musicale. Sarebbe sufficiente considerare le sue prove discografiche complete nel nome di Beethoven e di Mahler, che tengono banco da diversi anni, per fugare ogni dubbio, ma è nella natura di Chailly la ricerca di nuove forme espressive che tengano conto non tanto dei possibili nuovi aggiornamenti in campo filologico, bensì della riconsiderazione di alcuni parametri che sembravano intoccabili.
Il rigore nella scelta e nel mantenimento dei tempi, ad esempio, che sembrava quaranta o cinquant’anni fa un elemento imprescindibile nel rispetto di una asciuttezza toscaniniana che aveva fatto scuola. Chailly ha offerto una lettura della Quarta sinfonia di Beethoven che giocava su un raffinato accostamento tra le varie sezioni della forma sonata non rinunciando a variazioni percettibili del tactus. Ne usciva un discorso più difficile da seguire, forse, ma molto affascinante e involontariamente diretto a far sì che l’ascoltatore si ponesse di fronte a musiche apparentemente arcinote in maniera interrogativa. Non c’è miglior complimento che si possa fare a un interprete che quello di porre in grado l’ascoltatore di “pensare”, di meditare durante l’esecuzione. E Chailly ha anche il merito di innovare senza perdere di vista il passato. Nella Quarta sinfonia di Mahler, ad esempio, era percepibile un omaggio a Bruno Walter, di cui Chailly è un estimatore. E anche in questo caso si abbandonava il rispetto quasi ossessivo della metrica, ma non in vista di una interpretazione descrittiva della sinfonia, come spesso si ascolta attraverso l’interpretazione di direttori famosi, bensì di un ritrovato peso delle componenti strutturali dell’opera. E questo è risultato evidente anche attraverso l’attenzione verso il gioco di voci interne, soprattutto nel primo movimento. Chailly non si abbandona qui, in altre parole, semplicemente a una interpretazione vagamente sentimentale contando su un melos di indubbio fascino. La costruzione formale è sempre sottolineata e le variazioni di tempo e di fraseggio si fanno esse stesse elemento fondamentale dell’architettura del pezzo. Il sottile rubato attraverso il quale si ripresenta il tema principale alla fine del primo movimento è stato interpretato con tutto l’affetto possibile, e bellissimi effetti si sono ascoltati all’inizio del secondo movimento, là dove Mahler soggiace spesso al fascino timbrico di certi impasti sonori anche al di là degli ovvi richiami ai suoni della foresta. E nell’ascolto del terzo movimento è risultata evidente l’analogia con il famoso Adagietto della quinta sinfonia – inizio tranquillo in maggiore e sviluppo drammatico centrale – un parallelo attraverso il quale si capisce come in quest’ultimo famosissimo saggio l’autore sia riuscito a concentrare in poche pagine tutto un universo espressivo, là dove nella quarta il discorso è di gran lunga più sviluppato.
Il virtuosismo di gesto e interpretazione con il quale Chailly ha introdotto gli ultimi improvvisi bagliori (Allegro subito e Poco più mosso) prima della conclusione del terzo movimento valevano l’intera serata. Christiane Karg, già Sofia nel Rosenkavalier di qualche anno fa, ha dato voce con visibile sentimento al commovente Lied finale. Bravissima Laura Marzadori nel suo assolo ma tutta l’orchestra ha suonato con grande impegno, bellezza e intensità di suono contraddicendo certe abitudini di un tempo, quando la ripresa settembrina stentava a dare i suoi frutti.