di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Il Teatro Real di Madrid ha aperto la sua nuova stagione con il Don Carlo di Verdi, proposto nella versione italiana in cinque atti. La scelta tra versione in quattro o cinque atti è alla fine una questione di gusti e dipende dalla visione che si vuole proporre di questo capolavoro composito, un’opera in cui la tendenza di Verdi alla coerenza drammatica si scontra con le esigenze dispersive e spettacolari del grand-opéra francese. Pertanto, chi voglia puntare sull’unità, sceglierà la versione corta che s’inizia e chiude ciclicamente negli stessi ambienti del monastero di Yuste, chi sulla varietà, quella con l’atto in più, che narra gli antefatti della vicenda in Francia, a Fontainebleau. Vedere in scena quel che era avvenuto tra Don Carlo ed Elisabetta, cioè il loro innamoramento e il forzato matrimonio di quest’ultima al padre del primo, Filippo II, non aggiunge più di tanto all’intelligibilità della storia: tante sono le opere che s’aprono con il racconto di un antefatto (certo chissà, ci fosse un Trovatore in cinque atti, forse si troverebbe chi lo gradirebbe più di quello in quattro) e Verdi non era così pignolo come Wagner, che per spiegare l’antefatto della morte di Sigfrido finì per andare indietro non di un solo atto, ma di tre opere intere. Inoltre, se proprio si volesse coprire ogni salto narrativo, bisognerebbe proporre anche l’inizio del terz’atto con il balletto, cosa che nella versione di Modena del 1886 in cinque atti non è prevista (e infatti qui a Madrid non si è fatta), perché senza la scena dello scambio di vestiti e della festa, non si capisce bene che cosa ci stia a fare la principessa di Eboli di notte in giardino travestita da regina, e perché Don Carlo la scambi per quest’ultima.
Quello che sì aggiunge il prim’atto di Fontainebleau è un quadro di atmosfera contrastante, all’aria libera e pieno di giovanile speranza, che, a forza di sprofondare negli intrighi di corte e nelle costrizioni del potere politico, finisce per delinearsi nella memoria con il carattere di un sogno lontano, rendendo più toccanti le reminiscenze dell’ultima scena. Per questo la scelta del regista David McVicar di ambientarlo nella stessa opprimente scenografia di nudi mattoni che ospita gli altri quattro atti spagnoli, è stata sbagliata e ha smorzato il principale effetto che giustifica la versione in cinque atti. L’uniformità della scena unica, sempre scura e spoglia, ha compromesso anche in parte la scena, alla luce del sole e bagnata di popolo, dell’auto da fé, altro momento di contrasto drammaturgico. Molto belli e ricchi i costumi, invece, e assai apprezzabile il modo in cui la regia ha reso evidenti e comprensibili gli andirivieni psicologici dei tormentati personaggi di quest’opera. Ragionevole, ma più pessimista e cinica rispetto all’originale, la soluzione del finale, in cui Don Carlo è ucciso in scena dalle guardie del re, invece di essere trascinato via dal fantasma del nonno, Carlo V, che qui non si fa vedere.
Dettagli a parte, si tratta di una produzione ben azzeccata (come ha dimostrato il grande successo di pubblico), la cui riuscita si deve soprattutto alla parte musicale: a cominciare dall’appassionata ed autorevole direzione di Nicola Luisotti e dall’esemplare prestazione del coro e di tutti i comprimari, per finire con l’ottimo cast di protagonisti, nel quale pur mancava Francesco Meli, indisposto e sostituito da Marcelo Puente, il quale seppur con un timbro un po’ ruvido, ha sostenuto a dovere una parte così ingrata come quella dell’infante. Strepitoso Luca Salsi come Posa, seppure a volte spinto dall’esuberanza dei propri mezzi vocali a calcare un po’ la mano, e altrettanto impressionante vocalmente il basso Dmitri Belosselskiy, nei panni di un Filippo II forse più autoritario che tormentato. Tra le donne, Ekaterina Semenchuk ha dato il meglio di sé nelle parti passionali, più che in quelle facete, del personaggio di Eboli; mentre Maria Agresta, con l’eleganza del suo fraseggio e il suo controllo degli acuti, ha centrato in pieno il carattere nobile e travagliato di Elisabetta, costretta a nascondere le sue emozioni e a sentirle maturare in sé fino al memorabile sfogo nell’aria dell’ultima scena.