di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Un fervente seguace mozartiano avrebbe potuto, all’incirca duecentocinque anni fa, avanzare una critica non semplicistica nei confronti del Turco in Italia di Rossini, andato in scena alla Scala il 14 Agosto 1814. Il confronto con una recente replica scaligera del Così fan tutte di Mozart, presente nel nostro Teatro nel maggio dello stesso anno, anche se già dato alla Scala nel 1807 e in prima assoluta a Vienna nel 1790, gli sarebbe risultato piuttosto impietoso nei confronti dell’opera del ventiduenne pesarese, e lo stesso spettatore si sarebbe ricordato che l’episodio dello scambio delle coppie nel finale del Turco poteva fare riferimento a un precedente simile già presente nel finale delle Nozze di Figaro, lavoro che risale addirittura al 1786. Né, almeno dal punto di vista strettamente musicale, il Turco gli sarebbe potuto apparire meglio riuscito di quel capolavoro rossiniano di poco precedente che è L’Italiana in Algeri. Il fatto che i contemporanei avessero tirato in causa il problema relativo a una più che evidente dualità tra i due titoli rossiniani è tutto sommato secondario. Forse allo stesso pubblico non andò troppo giù il fatto che il riferimento alle turcherie era diventato nel frattempo desueto e fuori moda, se pensiamo a quanti lavori ambientati nel vicino e medio oriente erano giunti sulle scene fin dai tempi di Gluck e avevano appunto nel Così fan tutte trovato la loro estrema, irripetibile consacrazione.
D’altro canto un fervente rossiniano avrebbe quasi sfidato a duello il primo interlocutore, e avrebbe trovato argomentazioni di sicuro effetto inerenti alla modernità del Turco in Italia, alla bellezza di certi concertati, alla capacità di Rossini di considerare criticamente il proprio stesso genere buffo (anche se a rigore di “dramma buffo” si tratta). E avrebbe giustamente sottolineato la novità dei saggi di una vocalità del tutto nuova che differenzia in maniera consistente il trattamento delle voci da parte di Rossini nei confronti della tradizione mozartiana.
Una regìa più viva e una ambientazione meno convenzionale di quelle studiate da Roberto Andò e da Gianni Carluccio (pur con l’apporto dei bei costumi di Nanà Cecchi) per questa ripresa del Turco in Italia alla Scala, dopo ben ventitré anni di assenza, avrebbero forse aiutato a incrementare il già ottimo successo del nuovo allestimento, che contava sulla professionale direzione di Diego Fasolis (cui rimproveriamo solamente un incipit un poco troppo fragoroso) e soprattutto su un cast di notevolissimo valore. Andò avrebbe dovuto escogitare qualche accorgimento che andasse a commentare la lunga Sinfonia dell’opera, eseguita a sipario chiuso, ideare qualcosa di più mosso, di più vivo nella rappresentazione delle casupole (o meglio “casini di campagna”) nei pressi di Napoli, spesso sospesi per aria, evitare il trito richiamo ai macchinari d’epoca per la rappresentazione delle onde del mare, che facevano tanto Mosè, scegliere un altro vascello al posto di quello proiettato sullo sfondo (video di Luca Scarzella), che evocava più l’Olandese volante che una navicella di turchi, e via dicendo. Le mancanze dell’apparato scenico-registico hanno dunque fatto sì che l’attenzione fosse polarizzata sull’aspetto vocale, e diciamo che, una volta tanto, tutto sommato, non eravamo così scontenti dell’accaduto.
Da quest’ultimo punto di vista la serata è stata indubbiamente molto felice e non si sa se lodare di più le acrobazie belcantistiche e la identificazione nel personaggio della Fiorilla di Rosa Feola o la gravità e la scienza di Alex Esposito nei panni di Selim (sua, tra le altre cose, una magnifica “forcella” in crescendo all’inizio di “Bella Italia”). O la misurata lettura del personaggio che dà Giulio Mastrotaro nei panni di Geronio, evitando cachinni e buffonerie fuori luogo, e la bravura di Mattia Olivieri nel personaggio scomodo di Prosdocimo, che appare e scompare spesso attraverso apposite botole. Il ruolo che personalmente ci ha ricordato i fasti del ROF di tanti anni fa è stato quello di Don Narciso, protagonista Edgardo Rocha, cantante rossiniano dal timbro indimenticabile, in parte evocante quello di uno dei suoi maestri, Rockwell Blake. Rocha si è rifatto a uno stile che sembra oramai scomparso e a lui avrebbero forse dovuto essere tributati applausi ancora maggiori di quelli effettivamente concessi dal pubblico. Laura Verrecchia era una Zaide certamente a proprio agio nel personaggio, anche se il suo timbro nella regione grave non è tra i più seducenti. Bravissimo invece Manuel Amati nel ruolo minore di Albazar, da lui sostenuto con partecipazione esemplare soprattutto nella sua unica aria (“Ah! Sarebbe troppo dolce”). Di consueta eccellenza il coro, prima di zingari e poi di maschere, guidato da Bruno Casoni.
L’edizione critica uscita nel 1988 metteva ordine tra parti originali e contaminazioni successive, fungendo da inappuntabile sigillo a questa produzione.