di Attilio Piovano
Olandesi, solidi studi, un duplice ed eccezionale talento, i fratelli Lucas e Arthur Jussen sono una vera e propria forza della natura. Tuttora giovanissimi, sono ormai due star internazionali (sul web spopolano alla grande).
Nella spettacolare formazione per due pianoforti si sono esibiti a Torino, per il cartellone della blasonata Unione Musicale, in Conservatorio, la sera di mercoledì 16 marzo 2022 ed è stato un vero trionfo. Ampio ed articolato il programma offerto agli abbonati che s’inaugurava con la vasta ed irresistibile Sonata K 448 di Mozart. Lucas e Arthur – tecnica a dir poco perfetta, tocco adamantino e precisione assoluta (fa paura constatare quanto la loro simbiosi sia completa circa ritmo, tempi, fraseggi, modo di ‘sentire’ il brano e altro ancora) – l’hanno affrontata con una esuberanza a dir poco eccezionale. Ed hanno convinto fin dai primi istanti, con quell’attacco ‘orchestrale’ che pare schizzato fuori dalla partitura delle Nozze.
Una Sonata dagli assunti vistosamente sinfonici, con tratti sì galanti, ma improntata principalmente a una scrittura che esalta la dimensione dialogica, il gioco delle boutades di natura squisitamente teatrale, la K 448 conquista immancabilmente il pubblico. Ma se ad eseguirla vi sono due artisti di tale talento, la pagina decolla ulteriormente verso un empireo che lascia a bocca aperta. Non solo energia ed esuberanza caratterizzano l’interpretazione dei due fratelli neerlandesi, beninteso, e basterà farsi un giretto in internet, per chi desiderasse legittimamente comparare le nostre riflessioni con l’ascolto personale; i due giovani sanno infatti entrare al meglio nelle pieghe della partitura, soffermandosi con grazia ed anche arguzia, dove occorre, ad esempio nel porre in luce la leziosa e pur sublime soavità del secondo tema, tutto galanterie. Ma anche nel distillare con sensibilità il tempo lento per poi fiondarsi con una carica vitalistica che ha pochi eguali in altri pur consolidati duo, nell’ampio e irresistibile finale.
Una gioia per gli occhi e per le orecchie. Applausi grondanti e meritato trionfo. E dire che a fine concerto qualche bell’anima, con saccente protervia, di fronte al comune entusiasmo, uscendo dalla sala, affermava con provocatoria sicumera «un Mozart totalmente fuori stile»: quasi siamo venuti alle mani (metaforicamente) col tizio in questione, sostenendo – certo è una valutazione opinabile, siamo pur sempre nel campo dell’arte – come un Mozart siffatto sia di gran lunga preferibile a nostro avviso rispetto – absit iniuria verbis – a certe esecuzioni pseudo filologiche sul fortepiano, esangui e senza sugo che lasciano un senso di incompiutezza e di delusione. Bon. Altro non vi è da aggiungere sul Mozart d’esordio. Gioia pura per le orecchie, il cuore, il cervello ed anche per gli occhi, nel vedere i due giovani suonare con tanta eleganza ed incredibile affiatamento.
Poi la (relativa) sorpresa dello schubertiano Allegro per pianoforte a 4 mani op. 144 (D 947) detto Lebensstürme che poco si ascolta: ed è un piccolo gioiello formato mignon, il contraltare della ben più eseguita (e celebre) Fantasia in fa minore D 940, che certo non eguaglia, della quale tuttavia possiede la medesima Stimmung: due opere venute alla luce nello stesso periodo, in quel tragico 1828 che segnò la prematura fine del musicista di Lichtenthal. I due pianisti, nonostante la giovane età, ne hanno perfettamente focalizzato il pathos e l’intensità tragica, regalando istanti di notevole commozione.
Poi incursione nel ‘900 dei sommi Ravel e Stravinskij. E qui i fratelli Jussen hanno davvero superato loro stessi, dando prova di saper adeguarsi alle dissimili esigenze di partiture stilisticamente molto diverse. Insomma, trascorrere da Mozart a Schubert ai climi angolosi e cubisti dapprima della Valse e poi del superbo Sacre du printemps entrando nella ‘pelle’ di tali capolavori con una appropriatezza stilistica, una naturalezza ed una nonchalance incredibili, davvero non è da tutti. Suonano con apparente souplesse, come se bevessero un bicchiere di acqua fresca, sempre sorridenti e pure concentratissimi (a fine serata hanno ringraziato il pubblico con amabile cortesia, per la concentrazione rivelata, spiegando come a loro volta avessero suonato ponendo in atto la massima ‘concentrazione’ per l’appunto).
E così pareva di avere la partitura orchestrale dinanzi agli occhi. L’evocazione di timbri e singoli strumenti era palpabile, come sotto traccia, quanto meno per chi abbia ben presente le rispettive versioni sinfoniche. Della Valse è piaciuto quel senso di irresistibile ed ineluttabile fatalismo che vi prevale, e allora ecco le improvvise seduzioni, quei tratti charmant densi di lusinghe, e poi i collassi, il conflagrare tellurico delle masse, giù giù sino all’epilogo di quest’opera sublime, vero e proprio epicedio di un’epoca.
Del Sacre occorrerebbe scrivere almeno un paio di cartelle per elogiare la precisione assoluta dei due talentuosi giovani nel delineare le poliritmie, i climi espressivi variegati che il geniale Igor dissipò a piene mani in questo capolavoro assoluto. La vis enorme dei passi robusti in cui le masse sonore predominano, quasi con macchinistica e terribile imponenza, ma anche quei pallori e quelle zone estatiche che – si sa – del Sacre costituiscono un aspetto non meno impressive.
Pubblico in visibilio e due bis. Un delicato e diafano Bach/Kurtag a quattro mani («Gottes Zeit ist die allerbeste Zeit BWV 106»), poi una spassosa fantasia pseudo mozartiana che esordiva nel segno di una dissacrante (e pur intelligente) rielaborazione della K 550, per poi deviare con arguzia e ironia verso altri lidi e luoghi stilistici (arrangiamento di Igor Roma). Insomma due grandi musicisti, e non solamente due interpreti. Già sono noti in tutto il mondo. Faranno ulteriormente parlare di sé nei decenni a venire. Facile profezia, alla quale, se non interverranno circostanze contingenti nel futuro artistico del Duo Jussen, sarà difficile opporre smentita.