di Gianluigi Mattietti
Le pietre di Adámek. Tra le e proposte più interessanti della Biennale Musica di quest’anno spiccava Reaching out di Ondřej Adámek e Rino Murakami, lavoro realizzato insieme al il regista e coreografo Éric Oberdorff, nato dalla fusione di tre pezzi per sei voci (Ensemble Neseven), due percussionisti (Jeanne Larrouturou e Miguel Angel García Martín) e due danzatori (Compagnie Humaine).
Il primo, Knock Earth Stone Dust di Adámek (rielaborazione di Man Time Stone Time del 2019, per quattro voci e grande orchestra) si basava su poesie dello scrittore islandese Sjón (che erano anche alla base dell’opera Seven Stones, messa in scena a Aix nel 2018) che parlano delle energie arcaiche delle pietre, del loro rapporto con l’uomo; il secondo, Salmon crossing di Rino Murakami, musicalmente più inconsistente, si basava su un testo di Keiko Oguro per descrivere il rumore del fiume che scorre, e le “voci senza voce” dei pesci; il terzo, ancora di Adámek, era una nuova versione di Schlafen gut. Warm, basata su testi di lettere e cartoline scritte dai nonni del compositore neii campi di concentramento di Theresienstadt e Auschwitz (materiale d’archivio già usato nell’opera Alles klappt, presentata alla Biennale di Monaco nel 2018). Ciò che univa i tre pezzi era una poetica di tipo “panteistico”, legata all’idea dell’uomo che cerca di entrare in comunicazione con il suo passato, con la natura, con l’universo. E tutto sembrava nascere dalla natura minerale e fisica del suono, dai movimenti dei corpi e degli oggetti sulla scena, dove cantanti, percussionisti, danzatori correvano si raggruppavano, si intrecciavano in un unico ordito, come una grande orchestrazione fatta di suoni e gesti. Pattern ritmici reiterati erano combinati in organismi musicali complessi e incalzanti, con una scrittura precisissima, in solide strutture formali. Voci, sibili, respiri risuonavano in simbiosi con le percussioni, le pietre, le pompe d’aria, le bombolette spray, facendo quasi svanire il confine tra suono vocale, suono strumentali e gesto.
L’arsenale di Steen-Andersen
L’altro spettacolo clou della Biennale è stata la nuova versione di Run Time Error di Simon Steen-Andersen, intitolata The Return, e concepita come una reinvenzione multimediale del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi. Diventato negli anni uno dei “cavalli di battaglia” del compositore danese, Run Time Error è una «location-specific video-performance», già presentata in 18 versioni, in città e luoghi diversi, dopo la prima nel 2009, realizzata in una vecchia fabbrica di automobili alle porte di Francoforte. Emblematica del suo approccio con la composizione, utilizza come materiali non solo i suoni, ma insiemi di “suono-gesto-immagine”, sfrutta oggetti musicali preesistenti che poi vengono ricombinati, “ri-composti”, anche secondo funzioni non strettamente musicali, e quindi percepiti in una prospettiva nuova, spiazzante per le aspettative di ascolto. Anche un’opera di Monteverdi può quindi diventare un “object trouvé”, al pari di una canzone alla radio. Fondamentale anche la nozione di «location-specific», perché tutti gli elementi utilizzati devono essere legati al luogo dell’esecuzione, e sono quindi alla base della strettissima commistione tra video e performance dal vivo. Specifica per Venezia, in questo caso, era proprio l’opera Il ritorno di Ulisse in patria (rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1640), la cui esecuzione era affidata a tre cantanti (Giulia Bolcato, Anicio Zorzi Giustiniani e Davide Giangregorio) e a un ensemble barocco (il Venethos Ensemble), dislocati in diversi spazi dell’Arsenale e della città. Come in tutte le altre versioni, era presente anche lo stesso compositore che, con il suo microfono, e seguito da un cameraman, si muoveva attraverso percorsi accidentati, a piedi, correndo, in bicicletta, per vicoli e canali, ma soprattutto nei vari e vasti spazi dell’Arsenale, inseguendo e registrando i cantanti, i musicisti, ma anche lo sciabordio dell’acqua, le musiche provenienti da un altoparlante, vari oggetti che si muovevano per forza di gravità, d’inerzia, o per reazioni chimiche, come in un grande domino (memore della celebre istallazione Der Lauf der Dinge di Fischli e Weiss). Il risultato era un video, dove l’uso sistematico del piano sequenza dava allo spettatore l’illusione di correre lungo quei percorsi labirintici, di navigare lungo i canali veneziani, di inseguire una pallina dentro lunghe tubature. La musica di Monteverdi affiorava come per magia, talvolta distorta, come se fosse cantata sott’acqua o provenisse dal passato viaggiando lungo quelle misteriose tubature. Ulisse cantava vagando senza meta per l’Arsenale, Telemaco gli rispondeva da una torre, Giove intonava la sua aria in uno scafandro da sub con una voce deformata (come nell’episodio bachiano di Inzenierte nacht). In questo labirinto di suoni e immagini, che si snodava su diversi livelli temporali, Steen-Andersen innestava anche brevi sequenze cinematografiche (dall’Ulisse di Mario Camerini del 1954, con Kirk Douglas, Silvana Mangano, Anthony Quinn, e dall’Odissea di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan, un film muto del 1911) e due brevi interviste sull’opera di Monteverdi (con Stefano Nardelli e con la musicologa Ellend Rosand) facendo slittare il film verso il genere del documentario. Ma era soprattutto nella interazione tra questo video e la performance sul palcoscenico che Steen-Andersen dimostrava la sua maestria compositiva e le sue doti di “contrappuntista”: sfruttando le fessure nel telo del grande schermo, cantanti e musicisti passavano disinvoltamente dallo spazio reale a quello cinematografico (c’era anche una lunga scena di brindisi – un topos operistico – dove i cantanti sul palcoscenico facevano tintinnare i loro bicchieri con i cantanti nel video), la musica “live” e quella registrata si alternavano e si sovrapponevano in un gioco ibrido, virtuosistico e sorprendente, creando una dimensione giocosa e iperrealista.
La memoria di Van der Aa
Basata su una osmosi tra scena e ripresa cinematografica e tra suoni registrati e performance dal vivo era anche la nuova opera di Michel van der Aa, The Book of Water, per quartetto d’archi, attore e video, basata sulla novella L’uomo nell’Olocene di Max Frisch. Nelle sue opere, come One, After Life, Blanck Out, il compositore olandese ha spesso esplorato i temi della solitudine, della vecchiaia, dei ricordi, della morte, e anche in questa la vicenda aveva per protagonista un uomo anziano, il signor Geiser, che osserva intorno a sé la realtà sgretolars: vive da solo in una casa isolata in mezzo alla campagna, allagata dalle continue piogge, e sta perdendo la memoria. Per questo scrive bigliettini che attacca sulle pareti, ritaglia articoli dall’Enciclopedia, frammenti dalla Bibbia, ricopia formule matematiche, elenca i diversi tipi di tuono, studia i comportamenti di una salamandra, generando un guazzabuglio di idee incoerenti. Solo alla fine viene raggiunto dalla figlia Corinna, che aveva tentato per giorni di telefonargli. Questa vicenda, ripresa in un bel video interpretato dal celebre attore Timothy West e dal soprano Mary Bevan, si intrecciava con la performance “live”, sul palcoscenico, di quartetto d’archi (Ensemble Modern) e di un attore come voce narrante (Samuel West). Belli i giochi di rispecchiamento tra il video (ambientato in una casetta che ricordava molto quella di Blank out) e la scena progettata da Theun Mosk, uno spazio geometrico delimitato da pannelli trasparenti, che si muovevano come tende: anche i gesti di Geiser erano spesso duplicati dall’attore narrante, e in un momento, quasi onirico, nel film appariva lo stesso spazio vuoto e oscuro del palcoscenico, solo con una scrivania, come se la casa di Geiser fosse diventata un prolungamento della scena. Il mondo fragile e disorientato dell’anziano personaggio era reso bene dalla musica ripetitiva, ipnotica, costruita come un hoquetus, con quel periodare asimmetrico che è un po’ il marchio di fabbrica del compositore olandese. Ma alla lunga risultava troppo uniforme (variata solo dai melodiosi innesti cantati dal soprano e dagli effetti dell’elettronica), e la parte recitata sulla scena, già di per sè rinunciataria rispetto all’idea di inserire un ruolo cantato (come nelle altre opere di Van der Aa) risultava monotona e inutilmente didascalica; diventava interessante solo nel momento in cui l’attore sul palcoscenico cominciava a dialogare con i personaggi nel video, sebbene con interazioni molto elementari, nemmeno lontanamente paragonabili ai virtuosistici duetti tra palcoscenico e film di One e Blank Out, o ai concertati in 3D di Sunken Garden.
Il sonno di Schubert
Alla Biennale Musica si sono viste anche interessanti istallazioni, molto tecnologiche, che suggeriscono nuove possibilità creative per i compositori di oggi e nuove possibilità di fruizione per gli spettatori. Diaphanous Sound del giovane Paul Hauptmeier, permetteva al pubblico di muoversi all’interno di uno spazio delimitato in aree diverse da proiezioni luminose, ascoltando in cuffia mondi sonori virtuali, localizzati in punti specifici dello spazio reale, e variabili a seconda della posizione dell’ascoltatore, come un materiale modellabile fisicamente nello spazio. Un geniale esperimento virtuale guidato era Sleep Laboratory di Alexander Schubert, performance immersiva e partecipativa che partiva dall’idea del sonno (e del sogno) come tecnica di alterazione e riformulazione della realtà, come una reazione verso la rigidezza del reale, come una fuga da visioni del mondo precostituite, come la possibilità che ha l’uomo, in maniera del tutto naturale, di costruirsi una realtà virtuale. In uno spazio quasi fantascientifico, asettico, gli spettatori, dotati di cuffie e visori per la realtà virtuale, erano invitati ad entrare in coppie all’interno di camere delimitate da tendaggi rosa e verdi e a distendersi su lettini. Sei musicisti (gli ottimi strumentisti dell’ensemble United Instruments Of Lucilin), in tute aderenti da umanoidi, guidavano gli spettatori in questo viaggio psichedelico, dove la percezione della realtà circostante appariva, dove forme e colori cambiavano aspetto, dove si mescolavano insieme parole, suoni strumentali (di flauto, violino, viola, violoncello, pianoforte e percussioni) ed elettronici, dove si poteva guardare a se stessi e al proprio partner, come in un sogno, come se gli arti fossero scollegati dal corpo.
La prigione di Van Parys
È stata invece una delusione Notwehr di Annelies Van Parys, valente compositrice belga, allieva Luc Brewaeys, che si è speso fatta ammirare per la straordinaria abilità con la scrittura orchestrale. In questo lavoro per teatro musicale la parte più debole appariva proprio quella strumentale, oltre al collegamento pretestuoso con i madrigali di Banchieri della Barca di Venetia per Padova. La vicenda, molto drammatica (su libretto di Gaea Schoeters), era quella di due donne molto diverse tra loro, una giovane attivista arrestata durante una manifestazione e una barista accusata di aver ucciso il marito, che si ritrovano in prigione. La loro convivenza forzata le spinge a condividere paure e speranze, a scoprire di avere molte cose in comune, a provare una reciproca attrazione. L’idea di legare a questo dramma ai giocosi e «dilettevoli» madrigali di Banchieri nasceva dalla situazione scenica di personaggi diversi che “si trovano nella stessa barca”: un collegamento davvero posticcio, sia sul piano poetico, sia su quello musicale, perché non funzionava nemmeno come eco del passato e del mondo esterno. Lo spettacolo è stato messo in scena nella spettacolare Sala Capitolare della Scuola Grande di San Rocco, tra i magnifici dipinti del Tintoretto: le due protagoniste (il soprano Johanna Zimmer e il mezzo Els Mondelaers: bravissime) cantavano e recitavano all’interno di una gabbia costruita al centro della sala, mentre l’ensemble vocale (Venetiaeterna) cantava addossato alla parete di fondo, come un corpo estraneo anche dal punto di vista acustico. L’ensemble strumentale (Hermes) era composto di quattro musicisti, che alternavano ai loro strumenti (flauto basso, trombone, violoncello e percussioni) quattro ocarine, creando dei begli inserti sonori dal carattere diafano, vitreo, come uno sho. Ma a dominare era il suono del trombone, che sovrastava gli altri strumenti, e alla lunga appariva insopportabile, anche rispetto alla finezza della scrittura vocale che coglieva in profondità il dialogo intenso e drammatico tra le due donne.