di Cesare Galla
Iniziare un progetto di esecuzione integrale delle Sinfonie di Beethoven con l’Eroica, preceduta dalle Metamorphosen di Richard Strauss, ha un senso intrinseco, ovviamente di carattere squisitamente musicale, e uno collegato alla visione di chi sale sul podio, che non necessariamente deve andare nella direzione postulata dalla partitura straussiana.
Il collegamento musicale è di palmare evidenza: lo Studio per 23 archi scritto dal compositore tedesco (allora ottantunenne) nella primavera del 1945, mentre il suo mondo crollava sotto le bombe della guerra scatenata e persa da Hitler, è attraversato dal tema iniziale della Marcia Funebre della Terza Sinfonia. Si tratta di una ricorrenza più o meno variata ed elaborata (o “metamorfizzata”, appunto) fino alla sua trasparente emersione conclusiva, affidata ai contrabbassi nella zona grave della loro già oscura tessitura. Un’apparizione improvvisa, che ha insieme il carattere di un colpo di scena e di una desolata, definitiva chiusura di sipario.
Eppure, questa sconvolgente musica del dolore – epicedio di tutta una civiltà, come spesso si dice, forse con un eccesso di retorica – non necessariamente deve avere nell’Eroica un corrispondente integrale, se così lo si può definire. La Sinfonia che insieme alla Quinta più di tutte ha contribuito all’affermazione del mito del beethovenismo mantiene infatti una decisiva fedeltà alla forma ereditata dal Classicismo. E questo significa che la pur evidente centralità della Marcia Funebre non conclude il suo mondo espressivo, e neppure quello “filosofico”. Esiste insomma un percorso, dentro all’Eroica. Che ha una dolorosa eppure non definitiva “stazione” nella Marcia Funebre, ma che sfocia, come è tipico di Beethoven, in una sorta di superiore coscienza della condizione dell’uomo. Non è un caso che l’ultimo movimento sia basato su un tema – anche qui, come in Strauss, profondamente variato – che proviene dalle musiche per il balletto Le creature di Prometeo: un riferimento mitologico che apre la strada alla consapevolezza del destino umano e al “pensiero positivo” tipicamente beethoveniano, che si realizza in una musica di superiore poetica bellezza, spesso sottovalutata ed esecutivamente banalizzata.
Il concerto Strauss-Beethoven dell’Orchestra Mozart diretta da Daniele è stato rivelatorio proprio per questo: perché ha saputo illuminare le ragioni della forza creativa beethoveniana oltre il risaputo della sua interpretazione romantica, nella quale anche Strauss era immerso, aprendo gli orizzonti di una multiformità espressiva che nei momenti migliori ha raggiunto la poesia della riconciliazione, oltre il dramma del distacco.
Il direttore milanese esercita sull’esecuzione un controllo minuzioso, mai arido o fine a se stesso, evidente nell’essenzialità del suo gesto, interiorizzato eppure straordinariamente “pratico”. Questo controllo è funzionale un fraseggio che fa piazza pulita degli stereotipi, specialmente quelli più esteriori, per arrivare al cuore della questione interpretativa. Ne conseguono tempi adeguatamente distesi, che nulla concedono alla frenesia cinetica in voga anche recentemente; e soprattutto colori capaci di esprimere il pensiero interpretativo e una gamma dinamica nella quale le sfumature acquisiscono un senso pregnante diverso dalla retorica troppo diffusa.
Parafrasando il poeta, si potrebbe dire che nell’Eroica di Gatti c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico. C’è una consapevolezza storica che non si esprime in elucubrazioni filologiche ma rimodula il colore e la “portata” orchestrale secondo una misura sempre accattivante e mai ampollosa; c’è un suono corposo eppure mai inutilmente sovradimensionato, che punta al cuore del discorso e ne illumina dettagli altre volte sommersi nel furore (e nel fragore) delle perorazioni. Così si apprezzano piccoli gioielli nel rapporto fra le sezioni o all’interne di esse, e non si perde di vista il senso complessivo di un discorso avvincente nella sua nitidezza.
L’Orchestra Mozart segue il suo direttore musicale con ammirevole precisione, compatta negli archi, brillante nei legni, ricca negli ottoni (eccellenti i tre corni nello Scherzo) e offre dell’Eroica un quadro vivo e accattivante, peraltro lontano dal luogo comune del “Beethoven all’italiana”: luminoso, certo, ma anche capace di profonda meditazione e soprattutto di sottolineature mai banali nel rapporto fra le sezioni.
Gli archi avevano già dato ottima prova di sé nelle Metamorphosen, mettendo in evidenza le peculiarità virtuosistiche di una scrittura per parti tutte solistiche. La lettura di Gatti ha condotto il pubblico che affollava il Filarmonico in un’esperienza “immersiva” in questa musica complessa, densa, desolata. Interpretazione analitica che diventa sintesi espressiva, con un rigore stilistico mai fine a se stesso ma sempre capace di additare dentro alla complessità della scrittura i riferimenti tematici, le citazioni e le auto-citazioni.
Al Teatro Filarmonico di Verona, dov’erano di scena nell’ambito del Settembre dell’Accademia, l’orchestra Mozart e Daniele Gatti, impegnati con questo stesso programma in un denso tour partito da Ferrara e proseguito anche a Salerno, Bologna e Milano, sono stati salutati da un convinto, caloroso successo. Ed è parso chiaro che il loro progetto-Beethoven è nel ristretto novero delle iniziative musicali italiane che vanno seguite da vicino.