di Attilio Piovano
Davvero molti gli eventi di rilievo entro il cartellone del Festival MiTo 2024. Impossibile recensirli tutti con agio e ampiezza, come meriterebbero. E allora – come di norma – anche quest’anno ecco qualche spigolatura, attingendo dal diario di bordo, insomma dal calepino dei molti ascolti, beninteso sul versante torinese.
Tra i concerti in assoluto più gremiti e acclamati, da parte di un pubblico caloroso occorre registrare senz’altro la serata che ha visto protagonista la Filarmonica Trt (10 settembre, Auditorium ‘Toscanini’): sul podio, gradito ritorno, Gianandrea Noseda che per lunghi anni del Teatro Regio fu direttore musicale e che della Trt è il direttore emerito. Piatto forte del programma, una pimpante Settima di Beethoven; Filarmonica in gran spolvero, attestata su elevati livelli qualitativi grazie anche alla presenza in tutte le sezioni di numerose giovani leve, tecnicamente impeccabili e per lo più agguerrite. Un’interpretazione di gran classe quella di Noseda, improntata a incandescente scorrevolezza, attenta ai più piccoli dettagli, ma senza mai perdere la visione d’insieme sicché, a fine esecuzione, il pubblico appariva letteralmente e meritatamente in delirio. Se il primo tempo fluiva con indicibile naturalezza, dopo le frasi centellinate del Poco sostenuto, ecco che il sublime Allegretto affrontato senza indugi – pagina resa celebre in tempi moderni dall’impiego quale colonna sonora della scena madre nel film di successo «Il discorso del re» di Tom Hooper – lo si è apprezzato per il dosaggio millimetrico del crescendo, lo stacco dei tempi, non meno che per l’esattezza dei vari (insidiosi) raccordi ritmici; superbo, al suo interno, il fugato dal colore quasi chiesastico (che, nella suggestiva lettura di Noseda, incoraggia un confronto niente affatto peregrino col passo felpato degli armigeri nel Flauto Magico). Iper-cinetico e opportunamente energetico lo Scherzo (Presto) e trascinante quanto occorre l’orgiastico Finale, vera apoteosi dell’intera Sinfonia dalle icastiche impennate.
Non basta. L’esordio era nel segno di George Walker (1922-2018), pianista e compositore afro americano, che a Philadelphia fu allievo di Serkin e del moncalierese Rosario Scalero (maestro altresì di Menotti e Nino Rota). Se ne è ascoltato il delicato e toccante Lyric for strings (1946), elaborazione sinfonica del movimento lento del Quartetto per archi n. 1, quasi gemello spirituale del notissimo Adagio di Samuel Barber: pagina dall’intenso lirismo, dalla densa tessitura armonica e dall’amabile tornitura, è stata per molti una gradevole sorpresa. Gran successo poi per l’interpretazione che Noseda e Filarmonica Trt hanno offerto delle due Suites da concerto estrapolate dalla caselliana Donna Serpente: opera che Noseda stesso aveva diretto anni fa al Regio di Torino riscuotendo grande successo di pubblico e di critica. Con le linee angolose e cubiste (Sinfonia, Marcia guerriera, Battaglia e Finale), i fortissimi esacerbati, i profili timbricamente acuminati, il «dinamismo inquieto ed eccitato», ma anche certe rarefazioni oniriche e smagate, le due Suites – delle quali Noseda ha restituito tutta la fragranza e verve ritmica, ben assecondato dalla compagine torinese – conquistano anche il pubblico più refrattario scatenando copiosi applausi.
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Entro il programma del concerto dell’OSNRai diretto da Robert Treviño (9 settembre) figuravano ben due prime italiane, vale a dire l’ironico e sperimentale noConcerto del danese Simon Steen-Andersen per pianoforte (Rei Nakamura), voce recitante (Vinicio Marchioni), speaker (Susanna Franchi), orchestra, live electronics, luci e video (Daniel Miska direttore del suono), singolare elaborazione dagli assunti futuribili e a tratti naïf del Quarto di Beethoven, e Ishjärta per orchestra della svedese Lisa Streich (classe 1985): partitura a suo modo fascinosa, specie per l’abile contrapposizione di dissimili piani timbrici e lo screziato impianto ritmico, ancorché eccessivamente dilatata e a tratti un poco ‘sfilacciata’ sotto il profilo formale. Della Quinta, la più ‘iconica’ delle Sinfonia beethoveniane (che coronava la serata), Treviño – direttore ospite principale dell’OSNRai – ha una visione (giustamente) precisa e assai teutonica. E allora attacco vigoroso e ‘fatalistico’, e poi via, come si suol dire, con virile possanza. Ottima la resa di un’OSNRai in gran forma. Lettura stringata, quella di Treviño, senza (troppi) autocompiacimenti e senza disperdersi su elementi secondari, ma guardando dritto all’obiettivo complessivo, gesto ampio ed efficace, niente facili scivoloni nel plateale, coinvolgente sul piano emotivo. Giù giù sino alla luminosa catarsi del finale (appena un poco sopra le righe), con ottoni altisonanti, bassi energetici e l’incandescenza delle ultime misure che innescano applausi entusiasti. Bene anche il secondo tempo dagli immani clangori post rivoluzionari; così pure sono emersi quegli straniamenti desolati e quelle opacità che della chiusura del terzo tempo sono la cifra più caratteristica, per contro scioltezza e suono apodittico dove occorreva.
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Un vero tour de force e una singolare prova di bravura, ancora per l’OSNRai, quella mostrata il pomeriggio di domenica 15 in Auditorium ‘Toscanini’: in occasione della prima italiana di A House of Call di Heiner Goebbels, per la direzione accurata e sorvegliatissima dello zimbawese Vimbayi Kaziboni, grande esperto di musica contemporanea (affiancato da un pool di professionisti di livello, ovvero Daniel Skála cimbalom, Filip Erakovic accordéon, Steffen Ahrens chitarra, Simone Garino sax tenore, Tiziano Popoli campionatore, Norbert Ommer regia del suono e con Goebbels stesso alla regia luci). Ci si è trovati dinanzi ad una partitura complessa, gigantesca e monumentale sotto tutti i punti di vista, organico sterminato, durata di 105 minuti, concezione complessiva, modernissima e, nel contempo, sia concesso, a suo modo ‘anacronistica’: una partitura articolata in quattro vasti pannelli entro la quale confluiscono materiali eterogenei come dichiara l’autore medesimo. «L’opera – afferma Goebbels – non segue alcun sistema. Le sue fonti sono nate da numerosi viaggi, incontri casuali, ricerche sparse per progetti artistici, alcuni dei quali non sono mai stati realizzati», con voci di varia provenienza (armena, caucasica, africana e altre ancora) registrate su cilindri di cera a sovrapporsi all’esecuzione live dell’orchestra. Nella rapsodica e variegata frammentarietà della partitura consiste il singolare fascino della pagina che conquista a poco a poco con le sue dissimili atmosfere, per lo più cupe, livide, agghiaccianti, ma con istanti di indicibile lirismo e rarefazione, quali il suggestivo epilogo con le voci dei professori d’orchestra rapprese in un luminoso accordo di quarta e sesta di do maggiore. Una pagina emozionante della quale chi c’era conserverà negli anni a lungo indelebile e gradita memoria.
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Successo personale, poi, per l’ormai affermatissimo Daniele Rustioni al Lingotto (doppio concerto, alle 19 e alle 21, sabato 14 settembre) sul podio di Orchestre de l’Opéra de Lyon; una compagine di ottimo livello in tutte le sue sezioni che Rustioni ha magistralmente guidato dapprima nell’esplorazione timbrica del poema sinfonico Pelleas un Melisande op. 5, capolavoro del giovane Schoenberg dalla densa tramatura, quindi in una esecuzione memorabile e davvero emozionante della rara versione integrale della raveliana “sinfonia coreografica” Daphnis et Chloé, mai parsa così screziata, grazie anche ad un apprezzatissimo apporto del Coro di Lione (ottimamente istruito da Benedict Kearns). In apertura si è ascoltato il breve, ma intenso Les eaux célestes (2022) della giovane Camille Pépin, ispirato a una narrazione mitologica cinese circa l’origine della Via Lattea, in cui, come segnala l’autrice stessa in una lucida auto analisi, echi di Debussy e Dutilleux, ma anche Stravinskij, Steve Reich nonché John Adams, convivono felicemente, pagina gradevole, godibile e di immediata presa, dal raffinato e onirico candore, ibridata di leggiadro colorismo.
Buon successo di pubblico, in apertura di Festival, il pomeriggio del 7 settembre («Drink Jazz Suite, una mitologia alcolica») entro la cornice dorata del Teatro Carignano, per il monologo di Stefano Massini volto a delineare la singolare storia del marchio made in Turin Martini & Rossi. Testo arguto e ironico, quello di Massini autore-attore di singolare maestria nell’avvalersi di svariate corde di recitazione, ancorché testo forse un po’ troppo dilatato, con (intenzionali?) ‘squilibri’ sul piano della narrazione cronologica e pazienza per un paio di sviste storiche. Significativo il contributo jazzistico di Emanuele Cisi (sassofoni) affiancato da Eleonora Strino (chitarra), abile nel dar vita a mille sortilegi timbrici e virtuosistici, Marco Micheli (contrabbasso) ed Enzo Zirilli percussioni. Benché versante jazzistico e monologo non sempre parevano amalgamarsi in maniera ottimale.
Così pure mette conto registrare i vivaci consensi tributati al recital del contralto Delphine Galou dalla duttile vocalità – ottime la dizione e la presenza scenica – e del fuoriclasse Ottavio Dantone al clavicembalo (il 12), emblematicamente intitolato «Passioni selvagge e amori pastorali» dacché dedicato al repertorio della cantata da camera italiana tra Sei e Settecento, popolato di ninfe e pastori, alle prese per lo più con contrastati amori non corrisposti: in programma pagine dalla esibita teatralità di Porpora, Bononcini, Marcello, del sommo Haendel e di altri. Gran successo e occasione preziosa per molti torinesi amanti del Bello per ammirare il locale Le Roi Music Hall (noto altresì come Sala Lutrario dal nome del primo proprietario e committente) dagli arredi e decors progettati nel 1958 dall’outsider Carlo Mollino e rimasti pressoché intatti. Bis monteverdiano che Dantone definisce «quasi pop» e un mare di (meritati) applausi.
Singolare hommage pucciniano, nell’anno del 100° della morte del musicista lucchese, al Teatro Alfieri (il 18): ovvero «La principessa di gelo», riduzione dell’opera di Enrico Minaglia, attori della Compagnia Venti Lucenti, Orchestra degli allievi dei Conservatori di Torino e Milano diretta da Giuseppe La Malfa e oltre 100 allievi delle scuole primarie (regia, scrittura scenica e costumi di Manu Lalli). Infine uno strepitoso Toni Servillo voce recitante al Lingotto, il 19 con «Puccini, Puccini che cosa vuoi da me?» di Giuseppe Montesano: testo ironico, godibilissimo e stimolante (ancorché nella seconda parte rischiasse di ‘virare’, assumendo un tono in bilico tra elegiaco e saggistico). Con la partecipazione di Maria Tomassi (convincente soprano) Max Jota (tenore pur stentoreo, ma a tratti inelegante e un po’ sopra le righe); ad affiancarli l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali (sul podio Gianna Fratta che, poco curandosi degli equilibri fonici, spesso ahinoi sovrastava le voci). Gran finale sul versante torinese la sera del 20 settembre con «Torino FC, storia e gloria del Torino», prima assoluta, musica di carlo Crivelli e OSNRai per la direzione di Enrico Pagano.