Il pianista Maurizio Baglini ha proposto la musica del compositore francese in una serata-maratona alla Sagra Malatestiana di Rimini
di Giampiero Cane
C’ È CHI DICE CHE UN ARTISTA dev’essere capace di trovarsi il proprio pubblico. Nelle aree culturali piccole probabilmente è così, ma è così che accade nel mondo globalizzato, o nel globo mondializzato? Senza investimenti, per pura adesione, per risposta a uno stimolo giunto per caso? Non c’è rischio a rispondere di no e a sapersi nel vero. Per sostenere l’opposto bisognerebbe pensare a un tam tam dei media, a un loro passaparola nato da una impensabile sintesi di conoscenze disperse e non connesse. Va da sé che non provochi nessuno stupore il constatare che “nessuno” (basterebbe un milione oggi per emergere dal nessuno? Se il territorio è il mondo, probabilmente no), allora dico meno di cento persone, si siano accorte del concerto che Maurizio Baglini ha dedicato a Charles Koechlin a Rimini, quasi in chiusura della malatestiana, rispondendo positivamente.
S’è trattato di una maratonina con quattr’ore di musica intercalate da tre brevi intervalli enogastronomici. Chiariamo subito che quel musicista, essendo nato a Parigi nel 1867 è da considerare francese. Non saprei però come s’abbia a pronunciare il suo nome di famiglia, dato che le origini sono in Alsazia, quasi in una no man’s land. La cosa comunque è di interesse nullo perché il musicista crebbe e visse a Parigi, non lasciando nulla che abbia a che fare con un’ipotetica musica alsaziana, se esiste.
Fu un musicista dai vasti interessi, dalla teoria, alla didattica, che scrisse per solisti, gruppi cameristici e orchestra; non credo per il teatro, ma forse sì per il cinema, che amò tanto da comporre una Sinfonia delle Sette Star, la sua opera 132, del 1933, i cui sette movimenti sono intitolati Douglas Fairbanks, ricordo de Il ladro di Bagdad – Lilian Harvey, minuetto fugato – Greta Garbo, corale di preghiera – Clara Bow e i piaceri della California – Marlene Dietrich, variazioni su un tema ricavato dalle lettere che ne formano il nome – Emil Jennings, souvenir de L’Angelo Azzurro, e Charlie Chaplin, variazioni sulle lettere che ne compongono il nome. Queste ultime variazioni hanno anche titoli letterari: Il sonno del giusto – Volo scandaloso (Scandal flight, ma scandal non vuole dire soltanto vergognoso e cose simili, ma deve avere riferimenti eccitanti, se Scandals erano gli spettacoli del grande varietà (teatro pop) Usa degli anni Trenta; poi Riposo: barcarola, Ninnananna del ragazzo – L’illusione della speranza – Lo scontro con un Maschio – Serenata: Tango: tango del sogno – La rinunzia e il perdono – Apoteosi, in successione. Se, come pare fosse, il cinema era anche detto “la settima arte”, dato che i nomi dei dedicatari dei numeri interni a questa sinfonia sono tutti di attori al suo tempo celebri, questa sinfonia, della quale esiste una registrazione della EMI del 1983, può essere considerata forse il più ampio omaggio che le musica, fuor dalle colonne sonore, abbia reso a questo settore dello spettacolo e dell’arte.
La musica di Koechlin per ora rimane piuttosto ambigua. Probabilmente perché dagli scarsi studi che gli sono stati dedicati non si manifesta ancora l’immagine di una personalità definita in maniera sufficientemente chiara. Era amico di Ravel, non ostile a Satie, ma in relazioni talmente fredde con d’Indy da isolarlo anche se i rapporti con Fauré sembra siano stati buoni. Parigi, con tre scuole di musica era negli anni Dieci del Novecento un centro assai vitale. Vi andavano a studiare giovani che sarebbero diventati musicisti di notevole valore e a volte di successo. La scuola di Nadia Boulanger era la più frequentata dagli studenti d’oltreoceano. Da un musicista che come Koechlin dà segni d’essere più un artista che un professionista, un creativo più che uno del mestiere, ci si aspetterebbe di vederlo ben presente nel quadro, ma ciò non è. Egli andrà negli Usa tre volte tra il 1918 e il ’37, ma non sembra né aver tratto significative conseguenze dagli incontri che certamente là ebbe, né aver lasciato tracce notevoli del suo passaggio. Interessato alla musica popolare, non pare s’accorgesse di Bartók, ma rimanesse nel quadro più egotistico di quel Roussel, alla cui morte egli prese il posto di presidente della Fédération Musicale Populaire che già era stato dell’altro. Era un teorico, ma forse non molto informato. Se ne stava semi isolato, scoprendo da sé quel che serviva alla sua musica, estraneo all’espressionismo, alla dodecafonia, ma anche a Stravinskij. Per il carattere del suo pensiero, per quel che è possibile immaginare, avrebbe potuto sentirsi abbastanza vicino al trascendentalismo di Ives. Quest’ultimo però non era noto nemmeno negli Usa, figurarsi in Francia, ragion per cui gli approdi di Koechlin si chiamano piuttosto Wagner e Chopin.
Nel concerto tenuto da Baglini che comprendeva anche la Sonata per violoncello affidata a Silvia Chiesa, si sono ascoltate le 12 Pastorales op. 17, un quaderno per la gioventù, noiosissimamente idilliaco (se fanciulli e fanciulle venivano pensati così come li diresti per queste musiche), la causa del tardivo affermarsi del boogie e poi rock si può solo attribuire alla paralisi culturale del nazifascismo, dopo la così detta Grande guerra. Maurizio Baglini, che c’è parso più coraggiosamente spensierato di fronte a musiche tecnicamente più difficili di queste (non Le Pastorali, ma anche i più complessi Paysages et marines o Les Heures Persanes op.65, a tratti testi enigmatici), probabilmente in assenza di una prassi interpretativa di riferimento s’è trattenuto da effetti che la musica tuttavia suggerisce, o li ha accennati, senza marcarne il carattere. Ne è uscito allora un musicista a volte un po’ troppo vicino al suono di Debussy, un musicista che, l’avesse conosciuto, sarebbe forse entrato nel repertorio di Benedetti Michelangeli. Essendoci intrattenuti per un po’ con l’attuale interprete, dopo il suo concerto, gli abbiamo rivolto alcune domande.
Come ha incontrato la musica di Koechlin? Cosa c’è di pubblicato in edizione moderna e cosa nei fondi archivistici?
«Scoprii Koechlin nel 2002, in occasione di un cd dedicato alle musiche degli Anni Venti. Attratto da questo cognome che si poteva pronunciare sia alla tedesca, con il ‘ch’ duro, sia alla francese, in modo morbido, andai alla Biblioteca Nazionale di Parigi e chiesi l’ autorizzazione a visionare alcuni spartiti del tale Koechlin. Trovai poche cose: un Quintetto per pianoforte e archi mastodontico e le Pastorali, certamente scritte per compiacere l’orecchio di bambini borghesi o dilettanti aristocratici degli Anni Venti. Decisi di registrare le Pastorali op. 77 che piacquero molto a chi le ascoltava come musica di sottofondo. Decisi quindi di andare avanti con le mie ricerche, ma non riuscii a trovare alcuna occasione per piazzare nei miei concerti altra musica di Koechlin. Ad oggi, tutto ciò che Koechlin ha scritto risulta pubblicato, seppur di difficile reperibilità a causa degli scarsi ordini del marketing del mondo globalizzato. Esiste molta musica sinfonica, tantissima cameristica e poi ci sono tutti i trattati di armonia e contrappunto, di grande pregio».
L’esotismo, nella musica di questo autore è, a suo parere, centrale?
«Certo, quando ho messo mano all’immenso ciclo Les Heures Persanes, fra l’altro eseguita in prima assoluta in territorio italiano proprio qui a Rimini stasera, ho capito che quella era la genialità estrema e radicalmente nuova di Koechlin: il vero Koechlin non era quindi quello del compiacente e bucolico compositore delle Pastorali. E con la grande Suite di carattere islamico sono entrato nel mondo creativo di un compositore a mio avviso molto più importante di quanto, ad oggi, la storia della musica sia stata capace di catalogare».
Restando in tema esotistico, lei conosce i pezzi orchestrali che nacquero dal Libro della Jungla di Kipling. Cosa può dircene?
«Era uso comune , al tempo di Koechlin, ispirarsi ai mondi fantastici e sconosciuti, soprattutto da parte dei compositori francesi. La Francia era, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, il paese culturalmente e sociologicamente più dinamico e fulgido del mondo cosiddetto occidentale. Debussy sognava il Sol Levante e lo descrisse (Pagode) attraverso la propria musica. Saint-Saëns fece altrettanto, visitando tutta l’Africa centrale e il Magreb e spingendosi fino all’estremo oriente asiatico, mettendone in musica molti ricordi. Il Libro della Jungla non è frutto di un viaggio di Koechlin ma è la trasposizione in musica di un romanzo di successo. È musica direi onomatopeica: gli strumenti imitano, a tratti, i suoni e rumori della natura che fa paura, quella incontaminata e sconosciuta: la giungla, appunto. L’orchestrazione sembra quasi tener conto del fatto che la giungla deve rimanere estranea all’ essere umano».
La nozione di esotismo non è univoca; Koechlin è esota con Bartók e con Steve Reich. Questi ultimi, il primo di tre lustri più anziano di lui, il secondo 6 o 7 anni dopo la sua morte, sembrerebbe guardino più alla struttura delle musiche che li affascinano che non ai loro effetti. Quale è, secondo lei la posizione di Koechlin?
«Koechlin è decisamente alla ricerca dell’atmosfera pura e semplice, direi quasi sensoriale, come se scrivesse per far odorare, toccare, vedere, assaporare e non solo ascoltare la propria musica. È, quello di Koechlin, un esotismo non didascalico, ma puramente evocativo. Les Heures Persanes lo dimostrano: Koechlin legge il romanzo di Pierre Loti sulle rovine di Persepoli e il viaggio di avvicinamento al mito dell’arcaismo, ma poi, lui stesso, si spinge in Persia e scatta numerose fotografie. Un avventuriero, potremmo dire. Il ciclo riflette quindi non solo pensieri altrui, ma diventa una trasfigurazione di una pura esperienza culturale. Lo stesso procedimento lo aveva affrontato Louis Moreau Gottschalk con la Sinfonia nelle Notti Caraibiche, con una differenza sostanziale rispetto a Koechlin: Gottschalk aveva successo come pianista virtuoso e sapeva di dove mantenere la superficialità come prima dimensione dell’intrattenimento, mentre Koechlin , non interessato al successo di pubblico, cercava semplicemente di innovare e rinnovare, in tempi non sospetti, il linguaggio musicale, anche a rischio di non essere compreso, né apprezzato».
Ritiene che nella sua musica ci sia un potenziale che le permetta di fare ottenere al compositore un successo postumo di rilievo? Cos’è che in essa l’affascina?
«A mio avviso Koechlin rimarrà un esempio sublime di ricerca lessicale e scientifica, ma non sarà mai destinato al successo, proprio poiché è musica scritta per pochi intimi desiderosi di scoprirne le novità. Ciò non significa però che gli operatori culturali non debbano avere più coraggio, così come gli interpreti. Onore alla Sagra Malatestiana di Rimini e alla Fondazione del Palazzetto Bru Zane di Venezia per aver investito in questo progetto cosi raffinato ed estremo. Il successo, poi, non va misurato in cifre quantitative, ma in parametri qualitativi. Il fatto che stasera siano tutti rimasti in silenzio religioso durante la mia esecuzione e quella di Silvia Chiesa è un segnale molto significativo: il concerto può anche essere un momento di scoperta ed educazione, non necessariamente di divertimento viscerale».
Di Koechlin affascina la dimensione di distanza remota: temporale, geografica, storica e musicale, distanza anche nei confronti di un pubblico, stabilita proprio dal compositore. La scoperta di ciò che non si conosce dovrebbe sempre essere un motivo di dinamismo e di progresso intellettuale: per chi scrive questo processo di curiosità diventa un dovere fondamentale e irresistibile.