L’opera di Verdi è andata in scena al Carlo Felice di Genova, allestimento in co-produzione con il Municipale di Piacenza, il Comunale di Ferrara e il Teatro Alighieri di Ravenna. La direzione musicale (generosa) è di Andrea Battistoni. Nel cast Mansoo Kim, Anna Pirozzi e Carlo Colombara. Regìa di Leo Nucci
di Attilio Piovano
LA VERDIANA LUISA MILLER, SI SA, È OPERA NON FACILE. Partitura peraltro di innegabile rilievo, opera di transizione, secondo la valutazione comune degli studiosi più accreditati, tra il primo Verdi e le opere successive dove alcuni spunti musicali e suggestioni psicologiche troveranno il loro consolidamento: opera ormai posteriore dunque al primo periodo, quello dei famigerati anni di galera, e già prossima ai capolavori della prima maturità (segnatamente Rigoletto, Traviata e Trovatore), ma ancora ben lungi dagli esiti compiuti della miglior drammaturgìa verdiana. La protagonista qua e là già preconizza la futura Violetta, ma la psicologia del personaggio è invero ancora in nuce. Ancor più dicasi della bella figura del padre, il vecchio Miller, soldato in ritiro dai solidi princìpi morali e che si sublima per amore paterno: già anticipa certe indelebili figure per l’appunto paterne così peculiari della poetica verdiana, da Germont a Rigoletto stesso, senza però ancora possederne la forza e il vigore che rendono questi ultimi indimenticabili. La trama – occorre ammetterlo – è una storia trucida di «amore, intrigo e veleno» (ideali epigrafi per i tre atti) dal tragico epilogo, una vicenda di amore contrastato e di conflitti, di gelosie e rivelazioni, entro un’ambientazione dove corruzione e sentimenti alti convivono gli uni accanto agli altri; un’opera tuttavia inesorabilmente lontana dal gusto attuale, così come distante anni luce appare il non eccelso libretto di Cammarano (pur tratto dal sommo Schiller).
«Abbiamo spostato l’azione dal ’600 all’800 – spiega Leo Nucci – perché nel dramma di Verdi il tempo, indicato nel libretto, è ininfluente, non condiziona la storia. Così l’abbiamo pensato nell’800, ma non ne abbiamo mutato né travisato la sostanza. Il regista è Verdi ed è importante rimettere al centro il dramma, la coerenza e l’intelligenza della drammaturgìa.»
Un’opera in bilico dunque tra passato e futuro. Contiene bensì alcune splendide gemme melodiche (emblematico il duetto «Andrem raminghi e poveri»), certe toccanti mezze tinte già prossime per dire a Don Carlo, momenti di indubbia intensità drammatica, ma anche svariate pagine talora grevi e plumbee, specie nei primi due atti, laddove il terzo rappresenta sicuramente il vertice, ricco di pathos e in grado di coinvolgere maggiormente sotto il profilo emotivo. Insomma un’opera ardua che s’impone per lo più dal punto di vista del potenziale superamento dei modelli melodrammatici tradizionali e delle convenzioni e per la messa a fuoco di cardinali maniere quali appariranno pienamente compiute nei massimi capolavori. Ma un’opera, nel contempo, che pone obiettivi problemi e di fronte all’inesorabile prova del fuoco della messa in scena e nel confronto col pubblico d’oggidì mostra i suoi limiti (pur in presenza di qualche gemma purissima come il caso pressoché unico nell’intero iter verdiano di un quartetto a cappella di mirabile bellezza e intensità).
Al Carlo Felice di Genova Luisa Miller è andata in scena, per quattro recite dal 18 al 28 novembre 2014, in un allestimento in co-produzione con il Municipale di Piacenza, il Comunale di Ferrara e il Teatro Alighieri di Ravenna (riferiamo in merito all’ultima serata). Sul podio Andrea Battistoni, dal gesto esuberante, ha diretto con generosità, curando con innegabile attenzione gli equilibri tra le varie sezioni dell’orchestra; egli ha pur tuttavia mostrato di prediligere i suoni, i colori e i tempi del Verdi giovanile, insistendo su forti e fortissimi, innescando dunque qualche squilibrio tra la buca e il palcoscenico sicché ha finito per evidenziare, anziché ammorbidire le manchevolezze oggettive della partitura. Questa certa qual disomogeneità tendeva anche a propagarsi talvolta tra i cantanti. Ecco allora il tenore Giuseppe Gipali (nel ruolo di Rodolfo) interprete certamente musicale, dai fraseggi e dagli accenti appropriati, pur tuttavia talora un poco in difficoltà nel proiettare come occorre la propria voce in sala (obiettivamente è però andato molto in crescendo, con incertezze iniziali, ma regalando invece emozioni specie nel terz’atto).
D’altro canto padre e figlia Miller – rispettivamente il baritono coreano Mansoo Kim dalla dizione italiana a dir poco perfetta e dalle garbate timbrature, pur in presenza di qualche suono gutturale sulle asperità della nostra lingua ed il soprano Anna Pirozzi – grazie entrambi alla vocalità generosa e senz’altro corposa, spesso tendevano a forzare un poco per non venire sopraffatti da talune concitazioni dell’orchestra. Anna Pirozzi ha dato il meglio di sé nel terz’atto, dove il genere lirico prevale su quello di agilità, invero probabilmente non del tutto confacente alle sue peculiarità vocali. Una maggior costanza nella cura del legato, delle messe in voce e del fraseggio, come del resto ha mostrato di saper fare ottimamente nell’atto conclusivo, di certo le gioverebbe alquanto. Mansoo Kim inoltre appare scenicamente un po’ impacciato in una parte per la quale si richiede (anche vocalmente) molta attenzione e soverchia cura quanto a passaggi di affetto e dolcezza, come di norma nei baritoni verdiani impegnati nei ruoli di padre. Ha peraltro convinto appieno per gli accenti toccanti sfoderati in «Sacra la scelta». Molto bene entrambi i bassi presenti nel cast, vale a dire il navigato ed esperto Carlo Colombara e Giovanni Battista Parodi negli ‘odiosi’ ruoli rispettivamente del Conte di Walter e di Wurm; a Colombara, in particolare va un plauso speciale per la chiarezza davvero ammirevole della dizione. Quanto poi alla duchessa Federica, si sa, richiede un registro grave di tutto rispetto, in un ruolo breve, ma di notevole suggestione, quasi un accorato e struggente cammeo di donna non amata. Il contralto Daniela Innamorati, dal bagaglio vocale di grande consistenza, s’è rivelata interprete davvero eccellente, giusti colori, presenza scenica autorevole, convincente in toto. Ottima e assai ammirata la presenza del coro, ben istruito da Pablo Assante, il cui apporto gioca un ruolo di fondamentale pregnanza.
Regìa di Leo Nucci (blasonato e indiscusso baritono dalla caratura internazionale, una delle grandi voci del secolo, altresì protagonista la sera del 18 novembre), regìa (ripresa da Salvo Piro) semplice e funzionale allo spettacolo pur in presenza di qualche incoerenza nelle luci di Claudio Schmid (riprese da Luciano Novelli) rispetto al dettato testuale, specie nel terz’atto; oleografiche e naïf le scene a vista (dipinte) di Rinaldo Rinaldi volte a rendere un Tirolo di maniera e pacificamente tradizionali i coerenti costumi di Alberto Spiazzi.