Il fenomeno pianistico dell’era moderna raccoglie un grande successo anche nel suo tour italiano. Bach, Chopin e Čajkovskij in programma. La ragione di tutto questo successo?
di Luca Chierici
NON SI ERA MAI VISTO, a memoria d’uomo, un interessamento simile da parte della Rai, a partire dal novembre dell’anno passato, nel seguire un pianista nel corso di quattro suoi concerti tenuti a Roma, Firenze, Torino e ora a Milano. Trasmissioni in audio e in video per testimoniare la presa sul pubblico di un fenomeno della tastiera che almeno da una decina d’anni va riscuotendo un successo straordinario. Giunto agli Arcimboldi, Lang ha presentato per la terza volta il programma già eseguito a Torino e Firenze, comprendente il Concerto Italiano di Bach, Le stagioni di Čajkovskij e i quattro Scherzi di Chopin. Un programma corposo, senza particolari accenni a un preciso criterio di impaginazione, affrontato come di consueto senza tradire il minimo sforzo. Il pubblico ha reagito in maniera entusiaststica, con applausi scroscianti (e va bene) e con l’immancabile standing ovation che oggi non si nega quasi a nessuno.
La ragione di tutto questo successo? Sicuramente una buona dose di accumulazione dell’effetto marketing che ha via via portato il pianista cinese a diventare un mito vivente. Ma il motivo non è sufficiente e bisogna dare a Lang ciò che è di Lang, ossia qualità di suono quasi sempre molto bella, una facilità indiscussa nell’ottenere dallo strumento tutto ciò che egli vuole, una conoscenza sufficiente della tradizione esecutiva e di certi parametri che dovrebbero regolare la lettura dei classici. Però…
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Però, non è tutto oro ciò che luccica, e troppo spesso ci assale un dubbio: cosa farebbero tanti artisti se avessero le mani, l’agilità, la sicurezza, la memoria di Lang Lang? Certamente farebbero di meglio, e non bisogna essere dei grandi specialisti per capirlo. Lang affronta Bach con piglio quasi canzonatorio e sceglie, da capo a fine, di fare risaltare solamente l’aspetto ritmico (ma lo aveva già fatto con ben altro gusto Friedrich Gulda trent’anni fa) e soprattutto il controcanto della mano sinistra, come se la destra non esistesse quasi, o non avesse ad esempio diritto a porre in risalto, a cantare la splendida melodia del tempo centrale.
Negli Scherzi di Chopin tutto è condotto in base a criteri di forza e velocità, cercando di copiare quelli che sono i contorni del fraseggio esemplificati dai più grandi pianisti della storia, che si possono ascoltare attraverso sorgenti di riproduzione del suono. Per quanto fedele sia il rispetto di questi criteri da parte di Lang, il fine ultimo delle sue esecuzioni è sempre la velocità a tutti i costi oppure – è una delle prime cose che si erano notate all’inizio della sua carriera – il deprecabile uso dei rallentamenti a fini espressivi. L’espressione in musica discende soprattutto dal fraseggio, non dal contachilometri, e per quanto il primo possa essere studiato e imitato, la mancanza di un gusto personale viene percepito immediatamente dall’ascoltatore. Lang domina il pianoforte, non ne è dominato, peccato che le sue volontà non siano spesso indirizzate al raggiungimento di fini espressivi. Se nel Primo scherzo di Chopin certe esasperazioni ritmiche, certi contrasti sonori sono impliciti nel carattere di questa pagina straordinaria, nel Secondo sono presenti altri aspetti di espressione dolcissima – qui negati a favore ancora delle scelte effettuate nel numero precedente. Via via che Chopin si avventura in regioni sempre più misteriose ecco che si percepisce ancor di più la mancanza di tatto, l’ignoranza di un percorso stilistico estremamente raffinato che si può e si deve sottolineare. Tutto il Quarto scherzo è in tal senso travisato e il gioco di lunghe e di brevi, di pause e scatti improvvisi è ridotto esclusivamente a un esercizio digitale da esibire.
Il discorso relativo alle Stagioni di Čajkovskij è più complesso perché apparentemente Lang si è lasciato qui meno andare a cadute di gusto, e per il fatto che il melodiare del musicista russo è sicuramente più facile da inquadrare rispetto ai problemi stilistici che si incontrano così frequentemente in Chopin. Anche in questo caso, però, Lang dimostra di andare fuori strada almeno nel valzer conclusivo, del quale esaspera ancora il lato ritmico, trasformando una pagina tutto sommato elegante e suo modo raffinata in una danza contadina che ci proietta più all’interno di una tradizionale birreria tedesca che in un buon salotto alto-borghese della vecchia Russia. Contrariamente al caso dei colleghi russi, che sono sempre sensibili al numero di bis da concedere, Lang Lang fa come Michelangeli (si fa per dire) e al massimo si siede di nuovo al pianoforte una, due volte in casi veramente eccezionali. La Campanella di Liszt-Paganini (si poteva scegliere un encore meno plateale?) non era per nulla notevole neanche sotto il profilo puramente meccanico.
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