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Gli intepreti propongono l’integrale per violoncello e pianoforte a Milano. Riflessioni sull’intesa musicale del duo
di Luca Chierici foto © Vico Chamla
La stagione 2015-16 della Società del Quartetto di Milano si è aperta martedì scorso con un atteso concerto del duo Brunello-Lucchesini, primo di due appuntamenti (il prossimo è il 10 Novembre) che presentano l’integrale dei lavori per violoncello e pianoforte di Beethoven, ossia le cinque sonate e tre serie di variazioni. Un corpus che è stato affrontato nel tempo dai più grandi violoncellisti di tutti i tempi e che lo stesso duo aveva proposto in Conservatorio nel 1990-91. Seguiamo Mario Brunello dal 1986, anno in cui vinse il “Čajkovskij” e si presentò al Teatro Litta con un programma interamente bachiano che affascinò tutti i presenti. E seguiamo Andrea Lucchesini dal 1983, quando vinse il “Ciani” strappando il primo premio a un Jean-Marc Luisada musicalmente più dotato ma tecnicamente meno agguerrito.
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A quei tempi pure l’integerrimo Nikita Magaloff, presidente della giuria, aveva confessato che non era stato possibile rimanere indifferenti alla sicurezza spavalda con la quale lo stesso Lucchesini aveva eseguito le ottave nella Sonata in si minore di Liszt e nel Primo concerto di Čajkovskij, pagine che oggi i coreani appena adolescenti suonano la mattina mentre fanno colazione prima di recarsi a scuola. Sono passati trent’anni ma in sostanza i due ‘ragazzi’ sono rimasti gli stessi: il primo innamorato del proprio strumento e capace di far vibrare qualsiasi frase musicale, sia essa proveniente da Beethoven che da una canzone degli alpini, il secondo rigidamente ancorato a una concezione del pianoforte che predilige innanzitutto i concetti di ordine e disciplina, sia quando esegue i classici che quando, meritoriamente, insiste nel proporre al pubblico gli Encores e la Sonata di Berio.
Due personalità estremamente differenti che dimostrano sì un affiatamento invidiabile sotto il profilo della tenuta concertistica ma che non arrivano a mio parere a risultati di assoluta eccellenza, almeno in questo tipo di repertorio. Prova ne sia che i momenti migliori della serata si potevano cogliere soprattutto nelle due serie di Variazioni nelle quali, tra l’altro, sembra quasi che il sommo musicista consideri in maniera piuttosto riduttiva il contributo storico dei suoi due grandi predecessori (Mozart e Haendel) estrapolando dal contesto due melodie celebri e riducendone i significati in vista di un trattamento cameristico “alla moda”.
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