di Ilaria Badino
Ermione è uno di quei titoli da far tremare i polsi. L’avveniristica “azione tragica” in due atti che andò incontro ad un clamoroso insuccesso la sera della prima, il 27 marzo 1819, al San Carlo di Napoli, viene ancora oggi dispensata assai raramente al pubblico di tutto il mondo, quasi fosse una bomba inesplosa da maneggiare con cura. Ma adesso che dovremmo esserci abituati alla crudezza del finale – la conclusione drammatica era ancora un tabù all’epoca di Rossini – e che da tempo abbiamo i mezzi per apprezzare l’audacia musicale che la rende grande e innovativa, la sesta opera napoletana del Cigno di Pesaro non dovrebbe porre problemi esecutivi più di altre sue composizioni. Perlomeno, per attenerci ad un paragone semplice ed intuitivo, non più della Donna del lago, capolavoro dello stesso anno che fu creato dai medesimi Fantastici Quattro: Isabella Colbran, Andrea Nozzari, Giovanni David, Rosmunda Pisaroni.
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Però, chissà per quale motivo, se la lacustre fanciulla Elena non è in possesso di autentico stile belcantistico non è poi questo gran problema; se il contralto en travesti Malcolm Groeme non sgrana alla perfezione le colorature, ma anzi, le pasticcia con gusto, il successo personale è comunque assicurato. Rodrigo di Dhu tuona nei gravi ma, quando c’è da affrontare il caratteristico canto di sbalzo nozzariano, arriva con un filo di voce strozzata al sovracuto? Non potevamo aspettarci di meglio: le parti scritte per il baritenore della bergamasca sono pressoché ineseguibili. Che dire poi del Giacomo V di turno? Se s’impicca sui Do e sbava le agilità, è lo stesso perdonabile perché il ragazzo ha un piglio simpatico. L’esecuzione in forma di concerto al Théâtre des Champs-Élysées lo scorso 15 novembre è la prova inconfutabile che, con una giusta scelta di casting, nemmeno Ermione dovrebbe far più paura.
L’ouverture si fa strada lenta, sostenuta da un volume imperioso: solenne, inesorabile. L’orchestra risponde in piena empatia ai venerabili gesti di Alberto Zedda, scagliando saette di puro suono strumentale inframmezzate dal contrappunto di un coro estremamente maschio, disperato e guerresco insieme (e non solo perché nel frangente iniziale dell’opera è composto unicamente da uomini). Sin dalla prima nota, la direzione sembra improntarsi su agogiche e dinamiche di un’imponenza monumentale, come se riflettesse una totale devozione ai dèmoni della tragedia greca, ardua impresa facilitata dalla presenza delle eccellenti compagini dell’Opéra de Lyon.
L’unico appunto che si può muovere ad Eve-Maud Hubeaux è quello di indossare un fasciante abito leopardato che poco s’addice al lutto vedovile della sposa d’Ettore. Per il resto, il giovane mezzosoprano svizzero stupisce per la densità di un corpo vocale ugualmente polposo nei gravi come negli acuti, agganciati con facilità ammirevole e dotati di uno squillo invidiabile per una cantante della sua corda. Felicemente per noi, Pirro è qui interpretato dall’ottimo massimo Michael Spyres, che aveva recentemente dato saggio delle proprie duttilità ed estensione vocali nel concerto fiorentino interamente dedicato alle principali arie composte per Nozzari. Ormai profilatosi come punto di riferimento quasi assoluto per la sua generazione per quanto riguarda le impervie parti baritenorili, l’artista americano piega il suo bel timbro tornito, morbido e virile insieme, alle soluzioni più estreme del canto di sbalzo (che risonanza quei gravi!). Dmitry Korchak è un Oreste dalla proiezione insolente, accompagnato al suo ingresso in scena dall’altrettanto vibrante, ma più brunito, Pilade di Enea Scala: gli acuti di «Ah! Come nascondere» sono veri e propri baleni, colpi di cannone che percuotono i timpani degli ascoltatori in qualsiasi ordine di posti essi si trovino.
A chi scrive, però, rimane il dubbio se il Belcanto sia o meno il vero terreno d’elezione del tenore moscovita, il cui volume strabordante sembra stretto in catene quando indirizzato verso il repertorio italiano primottocentesco, mentre fluisce in totale libertà nelle più ampie campate della scrittura romantica. La questione della pertinenza stilistica balza palese all’orecchio quando, poco dopo, Spyres cesella la propria aria tripartita «Balena in man del figlio»: anche qui ci troviamo di fronte ad una vocalità eroica e possente, ma elegante, vellutata e formalmente del tutto contenuta nelle strutture musicali che il Belcanto prescrive.
Se è vero che per definire la vocalità di Isabella Colbran fu coniata l’espressione “soprano drammatico d’agilità”, allora Angela Meade si pone di buon diritto nel solco delle sue eredi. Il mezzo è potente, le agilità sono snocciolate con precisione, i gravi sono vigorosi e non mancano neppure raffinatezze da navigata tecnicista quali attacchi acuti in pianissimo, frasi a fior di labbra, trilli e smorzature. Talvolta le note estreme risultano sgradevolmente acidule e sfogate, ma più che nella reale mancanza di controllo in quella zona della tessitura, la ragione della non perfetta riuscita di alcuni passaggi è da ricercarsi nel fatto che la cantante statunitense non è un’avida declamatrice come, per esempio, la nostra Anna Caterina Antonacci.
Nei momenti in cui la musica si fa parola, più che la parola musica, il non pieno possesso della lingua del libretto si delinea come un handicap di grossa portata: nella Gran scena, che principia con «Essa corre al trionfo» e si protrae per una ventina di minuti, l’accento dovrebbe essere scolpito ed emotivamente violento, come se le note fossero l’ultimo prodotto di un turbinio di sentimenti opposti e laceranti. È qui che l’empatia tra musica e interprete dovrebbe immergersi nella più elevata concentrazione mimetica, e quindi catartica dell’intera opera (e forse di tutto il catalogo rossiniano): una volta terminata, l’ascoltatore stesso non potrà non sentirsene squassato ed esausto quasi quanto la stessa protagonista. La Meade riesce nel cimento, ma solo in parte.
Di buon livello i comprimari. Il già citato Enea Scala ha saputo dare risalto al ruolo più che secondario di Pilade costellandolo di saporite puntature; Patrick Bolleire è stato un autorevole Fenicio, Josefine Göhmann un’esuberante Cefisa (forse anche troppo), Rocio Perez e André Gass rispettivamente dei validi Cleone ed Attalo.
E se gli applausi stentavano a frenarsi alla fine del primo atto, al termine dell’opera un successo intinto nei toni dell’apoteosi ha accolto il cast canoro al completo, fino ad esternarsi in una convinta standing ovation all’uscita singola del Maestro Zedda, acclamato come un divo di altri tempi.
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