di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
È SICURAMENTE DAL TOCCANTE (e a dir poco sublime) Intermezzo anteposto al terz’atto che occorre esordire per valutare correttamente la Manon Lescaut diretta al Regio di Torino da Gianandrea Noseda (al suo debutto in tal senso) a partire dallo scorso 14 marzo 2017 (per un totale di otto recite): una lettura per così dire intimista – quella dell’Intermezzo – struggente riverbero dell’infelice amore dei protagonisti reso con geniale intuito dall’empito melodico degli archi, impreziosito dalle arpe e poi rilanciato a piena orchestra, mimesi della palpabile disperazione di De Grieux. Un’interpretazione, quella di Noseda, cesellata nei minimi dettagli armonico-timbrici, attenta ad evidenziare la bella curva espressiva, dunque con il culmine dinamico al centro e il ripiegarsi delicato e diafano delle ultime misure. E da lì si è ben compreso quanto Noseda abbia opportunamente inteso ‘puntare’ (negli ultimi due atti, in special modo) sulla componente psicologica, nonché sulla dimensione tragica che domina la parte conclusiva di Manon: con al centro, a sovrastare il tutto, il dramma dei due amanti, giù giù sino all’esito fatale e la morte di stenti della condannata sulle lande desolate del Nuovo Mondo, «ai confini con la New Orleans».
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Insomma quel mix ‘decadente’ di amore e morte, di eros e thanatos, estremo portato del Romanticismo che in Puccini tanto copiosi e convincenti frutti continuò a produrre, dall’ottocentesca Manon (‘battezzata’ proprio al Regio di Torino nel 1893 a pochi giorni dall’exploit scaligero del Falstaff) alle ‘novecentesche’ Tosca, Butterfly e oltre. E allora ecco giustificato, o quanto meno comprensibile, il piglio ‘giovanilistico’, animato, ipercinetico e forse a tratti addirittura ipertrofico della lettura dei primi due atti, specie il primo, con tempi oltremodo sbrigliati, dinamiche significative, l’orchestra sempre in primo piano (anche a costo di rischiare di coprire talora qualche tratto vocale). E per contro il climax espressivo dell’ultimo atto con la gemma melodica di «Sola, perduta abbandonata» che è tra i vertici del Puccini giovanile.
Noseda ha potuto contare sull’orchestra del Regio in buona forma che lo ha sempre assecondato, dando prova di efficienza inappuntabile e duttilità, trascorrendo appunto dagli apici fonici del primo atto alle rarefazioni estenuate dell’ultimissima parte. Del cast occorrerà porre in luce l’innegabile bravura di Gregory Kunde, ancorché (phisique du rôle inadeguato a parte) i panni del giovane aitante non corrispondano propriamente al suo ruolo. Se l’è cavata bene, con mestiere e professionalità, andando in crescendo nel corso della serata e regalando anche qualche emozione (immancabile in «Donna non vidi mai»). Da María José Siri (anch’ella phisique du rôle prescindendo) ci si sarebbe aspettati invece qualche guizzo in più, qualche momento di maggior intensità invano atteso sino all’ultimo: a partire da «In quelle trine morbide» sfilata via un po’ così (apprezzata nel momento dell’addio alla vita più sul piano scenico che su quello vocale). Per lo più inadeguato e scialbo Dalibor Jenis nelle vesti di Lescaut (davvero tornerà in giugno al Regio nei panni protagonistici di Macbeth? In molti se lo domandavano con un certo imbarazzo); del tutto convincente, per contro, il Geronte sbozzato dal navigato Carlo Lepore. Corretti i comprimari.
L’allestimento è quello visto nel 2006, con i fastosi costumi di Christian Gasc e soprattutto le sontuose, oleografiche scene di Thierry Flamand, nuovamente apprezzate per la cura dei particolari e la filologica qualità della realizzazione: già l’osteria di Amiens nel Primo atto all’imbrunire, con arcate, un andito sulla destra ed una scala dal lato opposto, al centro un grande lampadario tempestato di candele; e poi il lussuoso appartamento parigino di Geronte fitto di dorature, specchiere, lampadari e candelabri, stoffe damascate, poltrone e consolles in stile. L’allora regia di Jean Reno è ora firmata da Vittorio Borrelli: che muovendo i personaggi con pur prevedibile disinvoltura ha poi richiesto inutili faccine nella scena del ‘madrigale’ mentre alle prostitute che escono di prigione per avviarsi alla nave ancorata nel porto di Le Havre, una serie di gags ‘caricate’; sicché l’una schiaffeggia il gendarme, l’altra sputa a terra platealmente e un’altra addirittura sferra un pugno al malcapitato militare che si piega in due con tanto di smorfia; si sarebbe potuto francamente evitare.
Laddove è stato invece espunto (chissà perché) un efficace colpo di scena a conclusione del Second’atto, vale a dire la caduta dei velari al momento dell’arresto di Manon: ne emergevano muri scabri e sbrecciati quasi a designare fisicamente il crollo di una situazione ormai compromessa in maniera irriducibile, nulla di tutto ciò. Peccato. Un tocco di trash, poi nel momento in cui Des Grieux fatica a slacciare il corsetto di Manon e poi le si avventa con ardore come nemmeno l’infoiato Scarpia, con esiti involontariamente comici. E ancora: per il quarto atto, a rendere realisticamente la landa desolata ecco un semplice e scabro piano inclinato a designare il territorio desertico e aspro; nel 2006 campeggiava un sole calante all’orizzonte dai toni arancio rossastri poi sempre più cupi oggi sostituito da luci più scialbe e grigiastre.
Il vestito di Manon in chiusura è stato (banalmente) sostituito da una mise in nero prevedibilmente a lutto, come se le deportate avessero il tempo di cambiarsi d’abito, ma sulla copertina del programma di sala campeggia invece l’immagine di Manon morente con vestito beige, quello della vecchia edizione per ovvie ragioni redazionali, il fatto è che l’attuale Manon in gramaglie è l’ultima immagine che il pubblico si porta a casa. Come sempre corretto l’apporto del coro (ben istruito da Claudio Fenoglio) cui spetta un passo di rilievo, nel terz’atto, tra le umide brume del porto di Le Havre, all’alba.
Applausi sostenuti e protratti a fine spettacolo soprattutto all’indirizzo di Kunde e Noseda, fatto oggetto – quest’ultimo – di (meritati) omaggi floreali. Infine, comprensibili le esigenze tecniche dei cambi di scena, va bene la diretta radiofonica e televisiva, ma tre intervalli sono davvero troppi e defatiganti, finendo per spezzare tensione alla partitura pucciniana dal non eccelso libretto frutto – si sa – di troppe firme.
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