L’allestimento più debole dell’ultima rassegna pesarese trova finalmente la messa a fuoco nella ripresa felsinea, con una locandina musicale del tutto rinnovata
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
SPAESAMENTO, PRIMA, PER L’ANNUNCIO che Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna non prenderanno parte al prossimo Rossini Opera Festival. Tenera incredulità, poi, per la scomparsa di Alberto Zedda, l’eterno giovane caro in cielo al Cigno di Pesaro e in terra a chi ama l’enigma del testo e il galateo del canto. Proprio lui avrebbe dovuto dirigere le cinque recite del Turco in Italia sulla scena felsinea dal 10 al 18 marzo; e sono state recite imbibite del suo esempio, quasi a rinnovare sulla nostra spalla la mano del vecchio maestro: compagnia di canto perlopiù formata alla fucina pesarese dell’Accademia Rossiniana, compagini gioiosamente motivate come nei fervorosi giorni d’agosto del ROF.
S’è rivisto lo stesso allestimento scenico lì varato nell’ultima edizione: regìa e scene di Davide Livermore, che sovrappone il libretto di Felice Romani alla poetica di Federico Fellini, e costumi di Gianluca Falaschi, che reinventa da virtuoso il guardaroba di Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Rossella Falk e Sandra Milo. Da Pesaro a Bologna, però, molte cose sono cambiate. Lo spettacolo era sembrato, allora, un pretenzioso ma sconclusionato contraltare al prodigioso Ciro in Babilonia in scena nello stesso teatro e negli stessi giorni: medesimi artefici e analoga ispirazione cinematografica, ma tenuta drammaturgica in balia di frequenti forzature e d’interpreti non sempre persuasivi.
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A Bologna i conti sono tornati in pari. Sul più ampio palcoscenico del Teatro Comunale la rievocazione filmica e la colorata festa circense ricevono altra ariosità d’immagini, rinnovata cura coreografica e altra chiarezza d’informazione; sciolto il dittico col Ciro, lo spettacolo si sgrava di un’ombra opprimente e mira dritto all’autonomia del concetto e all’applauso del pubblico. Un punto di forza consiste poi nelle maestranze felsinee – nel 2016 al ROF per La Donna del lago e il Ciro, non per il Turco – oltre che in una concertazione meglio compenetrata e in una compagnia quasi tutta riassortita. Una compagnia dove, a chiasmo, il seduttore turco spetta a un basso italiano e la civetta italiana spetta a un soprano turco.
Come Selim, Simone Alberghini non usa l’insolenza che trascina, ma vanta rari morbidezza e smalto nel registro acuto, al bisogno sa simpaticamente raimondeggiare, rammenta comunque il primato della grammatica canora sull’istrionismo. Hasmik Torosyan lascia invece in camerino le aspirazioni da primadonna assoluta – l’ultima Fiorilla ascoltata a Bologna era un’irraggiungibile Mariella Devia – e punta a un personaggio spensierato e spumeggiante, credibilmente inconsapevole delle preoccupazioni date; qualche timore le argina il sicuro schiocco del registro acuto, ma la coloratura scorre fluida e lievissima, con sgranatura di rara nitidezza, e addirittura entusiasmante è la fitta articolazione del trillo.
Subentrando al previsto Paolo Bordogna nella parte di Don Geronio, Nicola Alaimo è anche il solo interprete ripescato dalle recite pesaresi: tal quale – compresa l’ingombrante e inconfondibile stazza – ritorna il personaggio straripante, esasperato, sovreccitato e monocorde per intenzione poiché appeso a un’imminente crisi di nervi. Ma vale la pena di seguire anche la quinta e ultima recita, ove la parte passa al giovane, talentuoso, diverso Marco Bussi: in lui il personaggio si fa slanciato nella presenza fisica e s’apre a bonarie sfumature filosofiche, più bolognesi che partenopee, eleggendo a interlocutore segreto e privilegiato il pubblico stesso; una risorsa, questa, che rilancia la storia del vero stile buffo.
Il ruolo del mattatore è comunque accaparrato da Alfonso Antoniozzi che, lasciati i panni di Geronio per quelli di Prosdocimo, non solo s’affianca al Pietro Spagnoli pesarese onde far strame d’altri interpreti, ma anche sfodera una retorica tutta impensata entro la stessa regìa: una sorniona enciclopedia di quanto si possa cavare dalla sillaba, e di quanto canto rimanesse da scoprire in una parte priva d’arie. Untuoso, evanescente e querulo nella caratterizzazione, Don Narciso secondo Maxim Mironov è anche frangente di tornita eleganza belcantistica. Gran scialo nell’ingaggio della rampante Aya Wakizono per la parte musicalmente marginale di Zaida, mentre funzionale è l’Albazar di Alessandro Luciano.
Secondo un uso ratificato nel santuario pesarese e poi stabilizzato nella regìa di Livermore, al direttore Christopher Franklin è data consegna di dirigere una partitura stagliuzzata nei recitativi secchi, ma debordante oltre ogni intenzione d’autore nell’infilata dei “numeri” musicali: s’ascoltano cioè non solo tutte le musiche di sicura mano rossiniana – con l’ovvia eccezione della cavatina alternativa di Fiorilla – ma anche quelle di uno, due o più collaboratori, le quali si sono stratificate attraverso le riprese d’epoca e andrebbero intese come sostitutive anziché come aggiuntive. Poco male: Franklin tampona la discontinuità del discorso prodigandovi pari raffinatezza di eloquio. E lo spettacolo di qualità è fatto.
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