di Francesco Gala
Appunti di un incontro tenuto per “I Giovedì Musicali” (http://www.tuttascena.com/incontri.html)
Cenni biografici sul compositore
Pier Francesco Cavalli nacque a Crema (Repubblica di Venezia) nel 1602 e, portato nella capitale sotto la protezione del nobile Cavalli (dal quale prese il nome, che in realtà era Caletti), fu cantore in San Marco quando, nel 1617, il maestro della cappella era Monteverdi; Cavalli fu, quindi, sotto il suo tutorato musicale. Poi secondo e, infine, primo organista, il compositore trascorse gli ultimi anni ricoprendo il ruolo che era stato di Monteverdi.
Cominciò a scrivere per il teatro nel 1639 e la sua attività non conobbe soste per un arco di ben trentadue anni. Risulta probabile – anche se non abbiamo prove oggettive in merito – la sua collaborazione con Claudio Monteverdi nell’ultimo
capolavoro del compositore cremonese: L’incoronazione di Poppea (1643). Il cardinale Giulio Mazarino lo chiamò a Parigi in occasione del matrimonio di Luigi XIV e la sua opera Ercole amante fu rappresentata il 22 novembre 1660 nella galleria superiore del Louvre; ma il lavoro si rivelò un chiaro insuccesso. Il progetto francese di Cavalli fallì probabilmente per più di una ragione: l’imperfetta conoscenza della lingua italiana del pubblico al quale era destinato, la scarsa attitudine dei francesi allo stile musicale italiano e, non da ultimo, la morte del Mazarino che aveva chiamato e protetto il compositore. Nell’opera figurano una serie di balletti scritti dell’astro nascente Lully, che ebbero assai maggior fortuna anche grazie alla protezione che il musicista-ballerino di origini fiorentine cominciava a godere presso lo stesso Luigi XIV.
Cavalli morì a Venezia nel 1676.
La Venezia teatrale di Cavalli
Cristoforo Ivanovich, croato, primo storico dell’opera veneziana, testimone oculare e anche librettista, così scriveva nel 1681:
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Ecco la stagione di quel carnovale che fa correre i forestieri e rende in continuo moto i cittadini avvezzi a goderlo ogni anno doppo l’annua occupazione o negli affari politici o domestici. Primi sono i teatri di musica a dar principio con pompa e splendore incredibile, punto non inferiore a quanto si pratica in diversi luoghi dalla magnificenza de’ principi con questo solo divario, che dove questi lo fanno godere con generosità, in Venezia è fatto negozio e non può correre con quel decoro che corre nell’occasioni in cui da’ medesmi principi si celebrano spesso le nascite e gli sposalizii a maggior ostentamento della propria grandezza.
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(Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino, Venezia, Nicolò Mezzana, 1681, pp. 377-378; il passo è tratto dalla sezione intitolata Memorie teatrali di Venezia)
Venezia era in grado di offrire all’epoca diverse realtà operistiche, in concorrenza l’una con l’altra; si poteva contare, di volta in volta, sui teatri di San Giovanni e San Paolo, di San Cassiano, di San Moisè, di Sant’Apollinare e di San Salvatore. Cavalli giunse a scrivere, per questi teatri, fino a cinque opere all’anno. Il passaggio dell’opera dalle corti ai teatri privati (fenomeno tutto veneziano, facilitato appunto dal Carnevale che richiamava in città la ricca aristocrazia europea) originò una trasformazione radicale. Bisognava, infatti, accontentare anche i palati meno raffinati, ed era imperativo contenere le spese; le opere andavano concepite per allestimenti non più esauribili in un’unica magnifica rappresentazione di corte, e quindi ora ideate per essere replicate più volte possibile. Gli organici dovevano essere ridotti, abolendo quasi sempre il coro. Le orchestre erano sfoltite al punto tale che a Venezia contavano circa dodici strumenti, tanto che i compositori finirono col limitarsi a notare il basso continuo lasciando l’orchestrazione ai vari teatri, in base all’organico a disposizione.
Le prime rappresentazioni della Calisto
La Calisto è la quindicesima opera di Cavalli ed ebbe la sua prima rappresentazione il 28 novembre 1651 al Teatro Sant’Apollinare di Venezia. All’epoca il Sant’Apollinare era dotato di un complesso macchinario, impiegato anche nella produzione di quest’opera, in modo da impressionare il pubblico. Nonostante gli sforzi produttivi, però, la messa in scena non richiamò un elevato numero di spettatori: le prime 11 rappresentazioni, realizzate tra il 28 novembre e il 31 dicembre del 1651, attrassero solo 1200 persone. La concorrenza, come già ricordato, era spietata.
Il libretto
Il libretto è di Giovanni Faustini, poeta e impresario, autore di quattordici drammi per musica (la maggior parte dei quali destinati proprio a Cavalli). Morì a soli trentasei anni, proprio nel 1651, data della prima della Calisto, suo ultimo lavoro. La collaborazione fra librettista e compositore è concentrata nella decade più altamente formativa della storia dell’opera veneziana (1642-1651); un sodalizio artistico da alcuni paragonato a quello tra Mozart e Da Ponte. A differenza dei colleghi – ad esempio Strozzi e Busenello (che lavorarono entrambi con Monteverdi) – Faustini non era un poeta aristocratico dilettante che si cimentava nel nuovo genere letterario (il libretto d’opera) su richiesta delle nobili famiglie proprietarie delle sale teatrali. Laddove i poeti si applicavano (come dichiarano nelle prefazioni ai loro lavori) a questo genere minore senza propositi di gloria letteraria, Faustini si proponeva invece come un letterato di professione che mirava al successo, indispensabile a chi, come lui, esercitava un’arte condizionata dai favori di un pubblico pagante.
Scrivendo La Calisto, Giovanni Faustini non ha voluto enunciare apertamente le fonti di cui si è avvalso; ma la sua opera lascia tuttavia trasparire una serie di aderenze letterarie, certo comprensibili ad un uditorio ristretto, esperto di poesia e letteratura come quello prossimo all’ambiente dell’Accademia degli Incogniti, «un club di intellettuali libertini che – sotto l’elogio dell’impostura – nascondevano un acre scetticismo filosofico insofferente di qualunque autorità costituita (politica, religiosa, morale, razionale)» e che, dal punto di vista letterario, si professavano seguaci di Giovan Battista Marino, quindi dei manieristi. L’uso disinvolto del patrimonio classico nella Calisto è la riprova. Gli Incogniti si trovarono perfettamente a proprio agio con questa nuova forma di spettacolo (il teatro in musica); una forma attuale, estremamente irregolare, che solo per la complicità collettiva poteva vantare ascendenze classiche e che tanto aveva da spartire, invece, con la commedia dell’arte.
La Calisto (dramma per musica in tre atti) rappresenta un caso emblematico di questa contaminazione di fonti e di stili: il soggetto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio ma s’interseca con la Calisto di Luigi Groto, favola pastorale del 1561 ristampata fino al 1612 a Venezia, e con la Calisto ingannata di Almerico Passarelli, dramma musicale recitato a Ferrara il 15 gennaio 1651. In entrambi i testi compare la figura di Mercurio, attivo anche nell’opera di Faustini, ma non in Ovidio né nelle sue traduzioni rinascimentali. Un mito e un soggetto che circolava anche nell’arte figurativa; pensiamo alle opere di Guido Reni. Nel caso di Faustini e Cavalli che collaborano per La Calisto, soggetto desunto dal classico latino (Ov., Met. 2, 424 ss.), il risultato complessivo del libretto è lontano dalla semplice rivisitazione letteraria; all’autore del libretto interessa, soprattutto, realizzare una macchina scenica autonoma e complessa. Qui siamo lontani mille miglia dalla riforma di Metastasio! Nel testo della Calisto Faustini si diverte, infatti, a trasformare lo spazio teatrale a sua disposizione e si impossessa del mito per trasformarlo in un contenitore di situazioni erotiche, ora allusive, ora esplicite. Mitologia, erotismo e anche commedia dell’arte si fondono per creare un’opera che legge, con un’audacia modernissima, un periodo storico soffocato dalla Controriforma. Abbiamo così uno specchio prezioso puntato sulla vita godereccia di un’oasi felice, la Venezia della metà del ‘600; uno specchio che riflette la vita licenziosa della città, isola franca rispetto al resto d’Europa. E leggiamo qui, al contempo, anche le stesse scettiche inquietudini che nove anni prima Monteverdi, e forse con lui anche Cavalli, avevano riversato a piene mani nell’Incoronazione di Poppea. Qui però, nella Calisto, si respira una straordinaria immediatezza di linguaggio, e ci viene regalato uno spaccato molto vivo dell’epoca. L’originalità di quest’opera sta nel fatto che Faustini scelse, secondo la tradizione aristocratica e ormai classica, un soggetto mitologico ambientato in un luogo di utopica uguaglianza sociale come l’Arcadia: qui Dei e Semidei possiedono tutti i vizi e le debolezze degli esseri umani e vengono descritti con gaudente lussuria.
Gli ascolti
Calisto è una ninfa dei boschi, figlia del re Licaone, che vive al seguito della dea Diana alla quale ha giurato di consacrare la propria vita, rimanendo casta. L’antefatto mitologico della vicenda è spiegato in prosa ampollosa in un paragrafo introduttivo sul libretto a stampa (titolato «Delucidazione della favola»): Fetonte ha rubato il carro del sole ad Apollo (suo genitore) e lo conduce troppo vicino alla Terra bruciando tutto e disseccando ogni sorgente, causando danni tali da costringere Giove ad abbatterlo con un fulmine e quindi a scendere sulla Terra in compagnia di Mercurio per valutare i danni causati. A questo punto, dopo un prologo, inizia l’opera. L’ambiente è una selva arida nella quale le due divinità trovano Calisto in lacrime per il disseccamento delle sorgenti. La ninfa è impegnata in un arioso che evoca con nostalgia tutto lo scenario bucolico perduto dopo l’incendio. Ed entrano così in azione questi antenati di Don Giovanni e Leporello. Colpito immensamente dalla bellezza della ninfa («se potessi morir, m’avrebbe ucciso»), Giove fa scaturire l’acqua dal suolo e, profittando della meraviglia suscitata, si rivela a lei; con l’aiuto di Mercurio si affretta quindi a dichiararle le proprie intenzioni in un’arietta festosa. L’incredulità della vergine Calisto e il rifiuto dell’indecente proposta di Giove possiedono un tono chiesastico, quasi si trattasse di una salmodia. Il corteggiatore è bollato da Calisto (che si rifiuta di bere alla fonte miracolosa) quale «libidinoso mago». In un brano antesignano dell’aria col da capo, la protagonista ribadisce la propria intenzione di restare vergine e fedele al culto di Diana, e così si congeda.
I due restano soli e studiano il da farsi. Mercurio mette in guardia Giove dall’insistere, ricordandogli che «Donna pregata / più si rende ostinata». Giove deve, piuttosto, «seguire il mio consiglio, usar l’inganno»; trasformarsi in Diana, prendere le sue sembianze, metamorfosarsi (non in tutte le parti del corpo, beninteso!). In questo modo la fanciulla non si opporrà.
Giove, quindi, si trasforma in Diana per ingannare Calisto. Il basso (registro regale appropriato ad un Dio) adotta il falsetto in tutti i momenti dell’opera nei quali si trova metamorfosato in Diana, producendosi con effetto estremamente comico, che richiede un notevole virtuosismo da parte dell’interprete. Si avvia – proprio a partire da questa scena – quell’aspirazione allo spazio celeste che caratterizzerà nell’opera gli interventi della protagonista («A la sfera | che circonda al foco il giro, | partirò | dal tuo lato | belve ree, nume adorato»). Giove seduce la fanciulla invitandola in «ricorso più ombroso, | in loco più frondoso, | al mormorar che fa l’humor cadente» (il locus amœnus d’ispirazione pastorale). Il Dio introduce così uno dei tanti snodi che ostacolano, a insaputa di Calisto, l’ascesa celeste alla quale la giovane aspira (ed è destinata).
Davvero affascinante è la psicologia di Calisto; la sensualità di questa ninfa, ingenua fino a quando non scopre l’eccitante forza dei sensi. Ora fanno la loro comparsa la vera Diana e Linfea, una vecchia ninfa (pare un ossimoro!), una specie di dama di compagnia della dea, impicciona puritana animata in realtà da voglie assai impazienti. Per continuare a giocare con i generi e le identità sessuali, quella di Linea è una parte affidata ad un tenore. Calisto entra in scena festante, con in bocca un’arietta. Si imbatte in Diana e, ancora ebbra dell’amplesso consumato poco prima fuori scena (naturalmente non con lei, ma con Giove metamorfosato), si lascia andare a confidenze che inducono la dea, incredula, a scacciarla su due piedi. Ed è semplicemente stupendo, dopo una lunga pausa, il lamento lacerante di Calisto ripudiata. Non è un caso che a Cavalli si ascriva il merito di aver individuato e consolidato gradualmente la forma di quella che era divenuta, tra il 1630 ed il 1650, la rappresentazione musicale di maggior interesse per il pubblico veneziano aristocratico e borghese e che verrà presa a modello nei maggiori teatri italiani (Napoli, Milano, Bologna, Genova) ed europei del tempo: vale a dire il merito di aver dato alle arie, dunque ai momenti solistici, una struttura funzionale, una forma più elegante e accurata nei dettagli timbrici e ritmici, più ricca d’armonia, di modulazioni e di strumentazione.
Sulle scene veneziane, la presenza di personaggi ridicoli era particolarmente marcata: ad esempio nutrici, fantesche ciniche e grottescamente ribelli all’idea di dover rinunciare ai piaceri d’amore, servi sciocchi contrapposti a servi astuti (in questo caso Mercurio). Si tratta di ruoli esemplati su quelli delle commedie parlate e dunque caratterizzati dallo stile che competeva loro; bassezza e quotidianità nell’eloquio. Abbondano così le locuzioni proverbiali e le allusioni alla vita contemporanea con bersagli polemici fissi. Non sfuggono a questa caratterizzazione Pan e Linfea, la libidinosa ninfa di Diana. I versi scritti per Pan e il suo corteggio (di cui fa parte anche un Satirino) sono dattili, metrica che dal Cinquecento era associata sì alle divinità silvestri, ma anche alla lotta, all’odio e all’inferiorità sociale. Così Faustini associa Pan e i suoi alla servitù, piuttosto che ai semidei. Si allontana in questo modo, nettamente, dai modelli arcadici che imperavano all’epoca, anche affidando a Diana un’invettiva contro Pan e seguaci trattati come «Dei plebei».
Dopo il lamento, Calisto esce di scena, e Linfea resta sola a rimpiangere di non aver mai provato l’amore a causa del voto di castità: «voglio, voglio il marito, | che m’abbracci a mio pro». Il Satirino, che ha ascoltato il lamento di Linfea, si candida per rimediare al problema, ma questa lo rifiuta per via del suo aspetto caprino. Il giovane, però (ed è un’allusione sessuale evidentissima), si è fatto un’altra idea del motivo per il quale viene respinto: «ancor crescente e picciola / porto la coda tenera».
Nella foresta cova un altro pericoloso focolaio amoroso: quello tra il bel pastore Endimione e la dea Diana. La quale, se non fosse per lo scomodo voto di castità e per la fastidiosa presenza di Linfea, gli corrisponderebbe molto volentieri. Diana (detta anche Cinzia, ma chiamata nell’opera in moltissimi altri modi), tramutata nella Luna, s’incontra appunto con il segretamente amato mortale Endimione, che bacia con la sua luce. L’atto secondo principia sulla cima del monte Liceo, dove il pastore s’è portato per stare più vicino all’amata Luna/Diana. Il suo monologo possiede, in modo assai sorprendente, una moderna struttura quadripartita: un recitativo, un arioso (invocazione alla luna), un breve tempo di mezzo e un altro arioso (invocazione al sonno: che termina con un meraviglioso distico di endecasillabi). Riconosciamo qui l’impronta di Monteverdi, per via dell’aderenza alla parola e al suo significato. Ma, allo stesso tempo, riscontriamo un’urgenza di melodia nel canto. La Calisto, soprattutto in pagine come questa, fotografa l’inizio di quell’evoluzione del ruolo della musica nell’opera: da ornamento alla parola fino alla piena partecipazione drammatica messa in atto da Monteverdi, fondamento per un predominio sempre maggiore del canto puro.
C’è in quest’opera un tocco di magistrale astuzia drammatica e una rivoluzionaria visione del mondo. È un vero e proprio stravolgimento, quasi “filosofico” (tanto che alcuni commentatori hanno pensato a Shakespeare); gli unici personaggi provvisti di caratura morale sono i due mortali della vicenda, Calisto e Endimione.
Il giovane s’addormenta e Diana, come Luna, gli si avvicina, si china su di lui – certa che il giovane penserà d’aver solo sognato – lo accarezza coi suoi raggi colmandolo di baci finché questi si sveglia, costringendo la dea a velarsi. Ad un appassionato duetto d’amore succede un’improcrastinabile separazione, mentre l’Aurora incalza. Satirino ha assistito alla scena e decide di avvertire il dio Pan/Pane, corteggiatore di Diana, e si lascia andare a considerazioni sulla castità della dea e delle donne in generale, traendo le proprie conclusioni in una canzonetta dal metro agile e svelto, ricordandoci (quasi fosse un Don Alfonso antelitteram) che «chi crede a femina / ne l’acque semina». E, a questo punto, fa il suo ingresso in scena la gelosa Giunone.
(continua…)