Alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha diretto l’Ottava sinfonia di Bruckner
di Andrea Bellini
Millimetrico. Il concerto d’apertura del Bologna Festival 2012 che ha visto sul podio il neo baronetto Antonio Pappano alla guida della “sua” Accademia Nazionale di Santa Cecilia dirigendo questo gigantesco affresco sinfonico, ha indirizzato la nostra fantasia su questa definizione, che solo parzialmente tenta di descrivere le sensazioni avute – senza peraltro riuscirci appieno – tanto è stata la precisione assoluta con cui ha scandagliato un lavoro di così vaste proporzioni senza mai perdere la misura, sia del gesto come del pathos, quasi usasse un bisturi invece che la bacchetta. Un gesto ampio, persino esagerato, che pare voglia inglobare l’intera compagine orchestrale con grandi bracciate, anticipando, sottolineando, in un’empatia assoluta, soprattutto con gli archi, autori di una prestazione smagliante pur nella fatica di quasi novanta minuti di musica ma sempre lucidissimi. E poi l’attenzione con cui ha saputo porre in evidenza di volta in volta aspetti diversi tra loro e persino contrastanti, a cominciare dall’esaltazione delle dinamiche che spaziano da fortissimi spaventosi con gli ottoni a far da padrone, fino a dei pianissimi quasi impercettibili, con il tremolo dei violini a cui ci manca il gesto tanto esso è flebile; il tutto però avviene con un estremo controllo del mezzo, verrebbe da dire, come un pilota di un bolide potente che estrae dal motore i più possenti ruggiti ma al tempo stesso dolcemente pennella morbido le traiettorie più curvilinee.
Un’orchestra che del resto conosce alla perfezione e che sa di poterne sfruttare al massimo le potenzialità e la risposta è sempre positiva, proprio grazie alle sfumature che tanto ci hanno colpito. I due primi tempi, l’Allegro iniziale e lo Scherzo, sono forse i momenti migliori dal punto di vista della scrittura musicale, dove Bruckner sembra alla ricerca di un linguaggio nuovo, che solo un pregiudizio (di frequentazione) o a causa dell’antica querelle con un Brahms in aperta opposizione, definirebbe wagneriano o post-wagneriano, tutt’altro! D’altronde pur nel rispetto dell’amicizia e della considerazione di cui godeva la sua musica nelle simpatie del compositore di Bayreuth, il paragone più prossimo è proprio Beethoven. Certo, il Maestro di Bonn è sempre lì, la “montagna incantata” da osservare, seduti in un tempo sospeso come nel romanzo di Thomas Mann, a perdersi nella contemplazione e nell’ammirazione ed al tempo stesso volgersi verso il superamento. Eppure in quest’opera i repentini cambi di agogica, le cesure improvvise e le riaperture vengono calcolate con intelligenza e sapienza, tali da rendere più sfumate le brume nordiche di cui sono intrisi alcuni struggenti passaggi. Ribaltando la battuta sardonica di Rossini su Wagner (“ha dei momenti meravigliosi ma dei brutti quarti d’ora!”) sono invece esaltati i momenti di serena sacralità dell’Adagio a rendere ragione dell’approccio con cui Pappano ha avvicinato questo monumentale lavoro, da affrontare – parole sue – come fosse una cattedrale; gotica, aggiungeremmo, per sottolineare come per lunghi tratti siamo condotti per mano verso vette inesplorate.
Precisione che si ripresenta di nuovo nel modo con cui scandisce il metro ternario dello Scherzo, in particolare dopo il commovente Trio centrale, e nelle pulsazioni che, a volte in maniera quasi impercettibile, diventano come un battito cardiaco appena udibile. E qui vanno i complimenti al solista forse più applaudito della serata dal pubblico attento e competente di un Teatro Manzoni pieno come nelle grandi occasioni (e questa lo è!), il timpanista Antonio Catone, che, in una partitura come questa dove le percussioni hanno un ruolo così protagonista, tale da suonare a volte da solista puro, si ritaglia un meritatissimo elogio. Colui che avrebbe “barattato una propria Sinfonia con uno solo dei valzer di Strauss” sa essere a sua volta leggero e quasi ballabile, ed anche qui è bravo Pappano ad esaltare la cantabilità di alcuni passaggi, come nel fare emergere i legni nei momenti in cui sono in primo piano; e se una parte della critica si aspettava un qualche eccesso “all’inglese” del neo baronetto (che non si capisce precisamente di cosa si tratti) al contrario la meticolosità con cui ha diretto ha semmai un che di teutonico, soprattutto nella corposità degli strumenti gravi dell’orchestra, violoncelli contrabbassi e fagotti, e nel furore ritmico quasi percussivo con cui fa suonare gli archi, a cui Pappano chiede un surplus di energie nel marcare gli accenti. Unico neo della serata qualche piccola sbavatura e problemi d’intonazione nelle sezioni dei corni, forse dovuto più al caldo in sala (che pensiamo ancora maggiore sul palco a causa dei fari) che ad errori veri e propri.
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