di Santi Calabrò

Anche la seconda delle cinque monografie dedicate dalla Lim alle Sonate per pianoforte di Beethoven segue lo schema “contesto-testo-interpretazione”. Già dalle prime pagine del libro emerge tuttavia la confluenza di tutti gli argomenti trattati verso l’interpretazione: ciò distingue questo lavoro, firmato da Leonardo Miucci, dai volumi della stessa serie editoriale già pubblicati (il I, introduttivo, il III e il IV).

L’autore è un pianista ma, come si apprezza di frequente in chi coltiva una particolare propensione per gli strumenti d’epoca, è anche un musicologo a tutto tondo. Con queste premesse, la trattazione si dispiega in una coerente visione unitaria e le parti storiografiche, filologiche, organologiche, estetiche, analitiche, tutte in piena e anche autonoma evidenza, si intrecciano costantemente, con fili sottili o nodi robusti, con gli aspetti relativi all’esecuzione.

Un volume così concepito mostra una piena consapevolezza delle scelte interpretative che sostiene. A rigore, ogni esecuzione presuppone sempre – persino in modo inconsapevole – sia una visione della forma musicale, sia un modo di inserire le opere nella logica evolutiva della storia (anche per questo l’interpretazione non può mai essere né “definitiva”, né risultato di una scienza esatta). La consapevolezza però ha sempre una marcia in più: qualsiasi pur efficace disposizione esecutiva può infatti finire per produrre esiti ripetitivi e poco interessanti qualora non solleciti e riconsideri periodicamente, se non di continuo, non solo i propri risultati ma anche i propri principi. Va riconosciuto come tale pericolo sfiori di rado i fortepianisti delle ultime generazioni (incluso lo stesso Miucci), la cui prospettiva di ricerca tende a sollecitare sia la riflessione critica che l’originalità interpretativa. Estesa ormai da diversi decenni anche al repertorio beethoveniano, e in anni recenti con una sorta di accelerazione, una riconoscibile disposizione culturale caratterizza la visione storica più informata (seguiamo Miucci, che manifesta insofferenza per la mera locuzione “storicamente informata” ponendo una domanda provocatoria: «come fa una esecuzione a non esserlo?»). Anche rispetto a Beethoven, infatti, i musicologi/esecutori storicisti tendono ad approfondire i legami con le matrici, con l’eredità del tastierismo clavicembalistico, della teoria degli affetti e della retorica. Da ciò deriva la (ri)conquista di un insieme di competenze che supportano una lettura scrupolosa degli spartiti, recuperando aspetti che la tradizione esecutiva ha trascurato. Alcune delle conseguenze di questi assunti sono ormai mediamente diffuse nella didattica aggiornata; altre, anche a livello dei fondamenti, non sono ancora ben assorbite. Fino all’Ottocento inoltrato, ricorda ad esempio Miucci, i trattati dedicati alla esecuzione pianistica – inclusi quelli di autori, come Czerny, che ebbero contatti diretti con Beethoven – raccomandavano la conoscenza dei piedi della metrica classica come prerequisito essenziale per la corretta “pronuncia” della musica; lo stesso Beethoven usava anche aggiungere dei testi alle pagine strumentali, per indirizzare gli allievi sia alla giusta accentuazione che alla sua equilibrata e spontanea misura. Oggi – deplorevolmente – sia la conoscenza della metrica che l’invenzione di testi a scopo di euristica dell’esecuzione non rientrano fra gli strumenti prediletti dagli insegnanti.

La ricerca sulle prassi esecutive non pone tuttavia l’accento solo su quanto permane (o dovrebbe permanere) costante, ma considera e indaga i mutamenti stilistici, intercettandoli anche nel differenziarsi dei codici della notazione e correlandoli ad altri quadranti del flusso della storia. Proprio il corpus sonatistico di Beethoven, sintomo e insieme causa di “svolte”, richiede un’apertura ermeneutica particolarmente sensibile alle tensioni evolutive. Abbracciare un’ampia panoramica storica porta perciò studiosi come Miucci, nonostante la loro esperta pratica del fortepiano, a non essere “integralisti” dell’Urton, ma a suggerire almeno di conoscere e provare gli strumenti antichi, o quelli ricostruiti, per capire meglio come suonare Beethoven su uno strumento moderno. Ciò non toglie che tutte le posizioni di Miucci siano fortemente mediate dalla forma mentis della prospettiva storicista. Il libro, che offre anche una minuziosa disamina delle prime edizioni delle Sonate beethoveniane, sostiene in più punti che molte edizioni successive corrispondono a “estetiche diverse” da quelle originarie: questo sottintende che la gran parte delle tradizioni interpretative del Novecento sia più da superare che da emulare. Già il fatto che un volume così centrato sull’esecuzione si astenga, a parte alcune stoccate polemiche, dal trattare altri versanti di “pensiero” esecutivo – quello degli interpreti meno direttamente riconducibili alla ricerca sulle prassi originarie – fa emergere delle tesi radicali. Anzi, l’esclusione appare forse il dato più eloquente: si può dire che nel libro si trovi tutto fuorché un disegno storico dell’interpretazione in epoca “moderna” (cioè dall’affermarsi delle registrazioni in poi), o anche solo qualche accenno in positivo, non sia mai, alle più celebrate esecuzioni beethoveniane del Novecento. Vi si potrebbe trarre invece, volendo, ampia materia per tracciare un disegno di sole critiche. L’idea che la storia dell’interpretazione sia fatta anche di legami trasmissivi che risalgono fino alle sorgenti è assente, sovrastata dalla visione opposta, dove signoreggia il disvelamento di ciò che le generazioni successive al contesto originario hanno perso o travisato. Non sovviene neanche, come è tipico degli autenticisti più agguerriti, il pensiero che pratiche documentate nei contesti di origine, e persino alcune abitudini esecutive degli stessi autori, possano essere storicizzate (nel senso di “superate”) in quanto non essenziali al significato musicale di opere che, non a caso, resistono a tempi e contesti mutati.

Al di là di qualche prevedibile eccesso nella direzione del recupero storico, il libro di Miucci per lo più trasmette conoscenze di estesa utilità applicativa. Scorrendo l’indice i pianisti potrebbero essere indotti a iniziarne la lettura direttamente dalla terza parte, dove si richiamano con abbondanza di esempi accurati le creazioni del Beethoven giovane, altre musiche, la trattatistica dell’epoca e tutta una tradizione recente di studi sulle prassi esecutive, restituendo in modo sia storico che sistematico i principali nodi dell’esegesi di un testo per pianoforte della seconda metà del Settecento e sostenendo alcune delle più tipiche innovazioni del movimento autenticista. A questo proposito le motivazioni, illustrate benissimo da Miucci, sono interessanti per tutti (si può anche scegliere, ad esempio, di continuare a non interporre note non scritte da Beethoven dopo determinati punti corona – dove i fortepianisti usano suonare dei brevi passaggi di raccordo –, ma capire le ragioni delle aggiunte fornisce comunque un approfondimento per l’esecuzione). In qualsiasi modo si percorra e traduca in pratica il volume, la lettura completa è tuttavia consigliabile proprio agli strumentisti: saltare, fra le altre, proprio le pagine dedicate alla Sonata op. 13 “Patetica” nella parte seconda, presumendo che lì si tratti di filologia o analisi del testo e non della sua esecuzione, sarebbe un errore imperdonabile. L’analisi della “Patetica”, in particolare del movimento centrale, è uno dei vertici del libro anche ai fini dell’interpretazione. Miucci guida il lettore nella terra di mezzo che dalla teoria porta alla pratica: la prospettiva analitica diventa immediato tirocinio interpretativo, dove il riconoscimento delle implicazioni della scrittura afferra aspetti sostanziali della forma di un capolavoro e della sua resa. Si va dalla dinamica sottintesa nelle legature al significato espressivo dei cambi di registro, dalle piccole differenze diastematiche nei punti nodali alla loro relazione con sottili differenze di articolazione, dall’impianto metrico al rapporto tra livello locale e livello generale, dalle partizioni della forma ai cambiamenti di “affetto”. Al riguardo, a monte di queste stesse pagine, nel libro l’indagine sullo stile e sugli affetti “patetici” è a un livello di approfondimento tale da potervi quasi estrarre una piccola monografia. Anche questo “nutrimento” arricchisce il rapporto tra il testo e l’interprete, e concorre a riempire di significato segni che per gli occhi moderni si riferiscono a singoli parametri, ma che sottoposti a radiografia (con “reagenti” estetici, filologici, retorici, organologici) vengono riscoperti nel loro significato plurale. Nel complesso viene chiarita la natura intuitiva (e non descrittiva, come sarà in seguito) della notazione beethoveniana nel suo primo periodo: anche spartiti apparentemente parchi di indicazioni diventano così uno scrigno esegetico che, a esito di una lettura di questo livello, appare di sicuro più trasparente. Inoltre, viene sempre ben calibrata, nel caso della “Patetica” come in altre Sonate, la ripresa degli stessi esempi in diverse parti del volume, rafforzando i concetti da diverse angolazioni e da un grado differente di focalizzazione.

Non mancano i momenti in cui le partizioni disciplinari dell’universo musicologico assumono rilievo in quanto tali: è inevitabile che ciò avvenga, ad esempio, in relazione sia all’analisi della forma musicale che alla prospettiva storica in cui inquadrare l’evoluzione stilistica. Nel caso dell’analisi il necessario profilarsi di un discorso autonomo è spesso insidioso; la specializzazione è condizione ineludibile all’approfondimento, ma anche occasione a un accademismo autoreferenziale e a volte angustiato da convincimenti ratificati per mera ripetizione da un testo all’altro. In questo, lo sguardo di Miucci apre a convincenti risultati particolari, che applicano i suoi propositi di partire «dallo stesso presupposto estetico dei compositori del Settecento» e di avvalersi «di prospettive metodologiche compatibili con le geometrie della retorica». A volte lo studioso sottolinea la sua presa di distanza dalle opinioni più diffuse: a proposito del primo movimento della Sonata op. 2 n. 1, Miucci dichiara e motiva il suo disagio a parlare di esposizione bipartita (dove il secondo elemento tematico sarebbe il rappresentante di un “carattere” diverso e l’immediato alfiere della tonalità di contrasto), e ne offre in alternativa una descrizione ben più aderente in senso musicale ed estetico. In altri casi l’autore piccona, senza darsi la pena di richiamarle, corpose tradizioni di stupidario accademico, come è il caso delle tesi che sostengono lo sperimentalismo “trasgressivo” della Sonata op. 10 n. 2: argomenti che Miucci non degna di menzione – e fa bene! – mentre ricorda Haydn e Clementi come serbatoi delle tecniche emulate con originalità da Beethoven. Qui il libro sembrerebbe rivolgersi a un lettore smaliziato, ma in realtà non ci vuole poi tanto per “iniziarsi” (basterebbe avvicinarsi al repertorio sonatistico settecentesco indicato da Miucci, o anche a pagine immortali come i Quartetti op. 33 di Haydn, astenendosi dal cercarvi le “norme” favorite dalla teoria della forma e seguendo la logica immanente della musica).

Come in altri studi recenti sul Settecento musicale, lo scandaglio sulle derivazioni culturali comporta una certa ritrosia a usare la locuzione “stile classico”, nonché a denotare con l’aggettivo “classico” caratteri chiaramente distinti dal tardo barocco e dalle altre correnti del secolo XVIII (restituendo invece un mondo e un periodo più omogenei, dai capisaldi culturali condivisi). Il libro di Miucci può sollecitare a tal proposito qualche dibattito sia sulle questioni di caratterizzazione stilistica, sia sugli stessi aspetti esecutivi. A livello di categorie storiche, non porre in rilievo il modo beethoveniano di recepire e sviluppare lo stile classico potrebbe apparire il risultato di mere scelte terminologiche (che però non sono mai neutre). La questione si mostra invece ben più sostanziale sul terreno dell’interpretazione, che si confronta innanzitutto con il livello locale della forma musicale. Quanto al primo aspetto, risulta molto significativa, per cogliere lo spirito dell’intero volume, la descrizione del cambio di passo del giovane compositore, che “diventa” Beethoven con le prime opere pubblicate a Vienna (Trii op. 1 e Sonate op. 2), ben più ambiziose delle precoci e pur ammirevoli pagine precedenti; in mezzo, il completamento dell’apprendistato a Vienna con altri maestri (tra cui lo stesso Haydn) e la rielaborazione di materiale già utilizzato in Sonate e Quartetti adolescenziali. Miucci, che riporta tutti i passaggi di questo snodo cruciale della Bildung beethoveniana, mette in risalto i caratteri innovativi delle opere viennesi, quali la perizia nel contrappunto e la presenza di «grandi contrasti sul piano degli affetti, della dinamica e della retorica». Questi ultimi, scrive lo studioso, «non sono altro che la maturazione» dell’estetica delle composizioni di Bonn», cioè «di quegli stessi ideali dello Sturm und Drang e dell’Empfindsamer Stil». Inoltre, la rielaborazione di alcune parti dei Quartetti WoO36, per Miucci, svela anche la ricerca di originalità del compositore, nella direzione di «de-mozartizzare» il materiale. Ora, è innegabile che Mozart a questa altezza non sia più un modello «ma un punto di riferimento con cui confrontare il proprio pianismo» (il Beethoven pianista accoglie e sviluppa anche gli apporti della “scuola inglese”); si può tuttavia anche indicare una migliore comprensione della forma mozartiana, oltre che haydniana, come innesco dell’esplosione viennese di Beethoven. Miucci non manca di accennare a questo aspetto direttamente o riportando delle citazioni, ma il suo peso gerarchico non appare in gran rilievo nella trattazione. Eppure, a dare la misura dell’importanza di una concezione formale radicalmente reindirizzata, basta il semplice confronto tra l’episodio in sol minore (do minore alla ripresa) nel I movimento del brioso Quartetto in Do maggiore WoO36 n. 3 e la sua ripetizione quasi identica nella Sonata op. 2 n. 3: nel Quartetto percepiamo una forma additiva che sfiora il pot-pourri, nella Sonata un ben più saldo teleologismo di tutte le sezioni nel segno della modulazione principale. Il fatto che l’affermazione della tonalità della dominante, nell’esposizione del movimento iniziale dell’op. 2 n. 3, sia preceduta invece che seguita dalla sua corrispondente tonalità minore, è solo l’aspetto più appariscente, ma non l’unico, di una strutturazione sonatistica giunta a maturazione in senso sia originale che, se è lecito, pienamente classico. A questo proposito, applicando soprattutto le categorie della Sonata theory di Hepokoski e Darcy (che anche Miucci a volte utilizza), in una relazione proposta nell’ambito di un recente convegno internazionale su Charles Rosen lo studioso Domenico Giannetta ha mostrato come alcune particolarità formali dei movimenti iniziali, nelle sonate beethoveniane del primo periodo viennese, siano riconducibili proprio ai Concerti per pf. e orchestra di Mozart.

Le analisi di Miucci richiamano spesso le trattazioni teoriche di epoca beethoveniana e associano qualche riferimento alla cosiddetta New Formenlehre: ciò avvicina il suo lavoro a quello introduttivo della stessa serie editoriale (il più affine, per alcuni tratti, all’impostazione del libro di Miucci), firmato da Giorgio Sanguinetti. C’è però una differenza significativa, rispetto al volume di Sanguinetti, che si riflette anche sulle questioni esecutive e apre un secondo spazio di riflessione sulle peculiarità dello stile classico. Mentre Miucci cita e mostra di apprezzare (a volte persino troppo) la Sonata theory, diversamente da Sanguinetti non menziona affatto le teorie di William E. Caplin (l’altro principale esponente della New Formenlehre). Il titolo del libro più noto di Caplin (Classical Form. A Theory of Formal Functions for the Instrumental Music of Haydn, Mozart, and Beethoven) già spiega la diffidenza del côté storicista: postulare una “forma classica” sembra non porre in rilievo quelle derivazioni così care a chi tiene sempre vigile lo sguardo all’indietro. Eppure, rinunciare del tutto ad alcuni dei capisaldi del lavoro di Caplin, in particolare al concetto di Sentence, appare qui una scelta non sempre convincente. I concetti di Sentence e di Period, preziosa eredità teorica di Schönberg e dei suoi allievi, hanno ricevuto da Caplin determinazioni ulteriori in termini funzionali. Miucci non trascura gli aspetti distintivi di frasi che altri studiosi definirebbero “sentenziali”, ma tende a rapportarli sempre all’evoluzione di un modello con un climax principale (alla fine) e uno secondario (al primo snodo cadenzale). L’inizio dell’händeliano Lascia ch’io pianga può fornire un esempio immediato di questo “ideale”; il libro non cita questo o altri modelli barocchi, ma l’ombra dei due climax e delle due cadenze è pressoché costante. Non che sia obbligatorio utilizzare la diade Sentence/Period per una buona analisi beethoveniana, è ovvio, e lo stesso volume di Miucci lo dimostra. In diversi punti, tuttavia, la mancanza del concetto di Sentence non appare ben risarcita dalla rilevazione di una seconda tipologia di «periodo con un solo climax». Il punto, infatti, non è solo la presenza nella Sentence classica di un’unica cadenza: l’idea che tutto converga comunque su un climax cadenzale non appare adeguata all’importanza assunta dal “centro”, caratteristica strutturale dello stile classico nelle singole frasi e nell’intera concezione formale. Sotto questo aspetto, la lezione di Artur Schnabel, il più influente dei pianisti beethoveniani del Novecento, è stata talmente esplicita da provocare qualche impertinenza (“le gentili cadenze”) nel caustico Glenn Gould, che però non mancava di riconoscere il ruolo di quell’esempio nella sua stessa formazione. In ogni caso, gli stessi suggerimenti di Czerny per un lieve rallentamento del tempo nelle bb. 5-6 della Sonata op. 2 n. 1 (I mov.) sono innanzitutto la presa d’atto dell’incremento del ritmo armonico, prima che la preparazione di un climax – che comunque non cade su una quarta e sesta cadenzale, ma su un primo rivolto della tonica (b. 7; alla ripresa, con la sinistra in battere, ciò è ancora più chiaro). Per di più, nello stile classico anche le strutture fraseologiche con due cadenze rivelano un’attrazione fatale verso un incremento di tensione dalle parti del “centro”: nel tema del Finale della Sonata op. 10 n. 1 Beethoven non prescrive alcuna dinamica, ma a b. 3 l’armonia di sesta eccedente con semibrevi alla sinistra e le concomitanti note più acute (alla destra) sono implicazioni della notazione tali da sconsigliare una lettura che assuma come culmine l’arpeggio di dominante delle due voci in ottava alle bb. 6-7 (come suggerisce invece Miucci). Certo, a fronte di questi rilievi, molti autenticisti sosterrebbero ragioni contrarie corredate da accattivanti figure retoriche! Ma è proprio corretto predisporre, se non un fossato, una gerarchia fissa tra la priorità della lettura retorica e il ruolo vassallo delle letture funzionali? Dobbiamo rassegnarci a questo, o peggio a una sostanziale inconciliabilità tra letture e culture dell’esecuzione? E soprattutto, un programma di “conciliazione” non aprirebbe ulteriori prospettive? In questa direzione, un saggio recente firmato da Piero Venturini (contenuto nel volume Tra creatività e interpretazione, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2022), che prende le mosse dai contributi capliniani, offre più di uno spunto. Vi si mostra come la teoria di Caplin per un verso traduca «in termini moderni le funzioni retoriche dell’epoca» (Idea base, Idea contrastante, Continuazione e Conclusione corrispondono, per Venturini, a Propositio, Antistrophe, Distributio, Confutatio), per altro verso specifichi «il contenuto di ogni funzione»: proprio questa è la parte più interessante e potenzialmente applicativa anche per un’analisi che voglia convergere sull’esecuzione.

Allargando all’ambito estetico il terreno delle differenze di prospettiva (che certo vanno chiarite prima di passare alle conciliazioni), se è vero, come sosteneva Emilia Fadini, che trattando del Settecento è sempre opportuna «una riflessione sulla consanguineità della musica con le altre arti», è anche evidente come la specificità della musica prenda piede a ogni livello al volgere del secolo: Wackenroder (1773-1798) arriverà ad attribuire alla musica, per la prima volta nella storia della riflessione estetica, un valore universale e superiore alle altre arti. Spicca peraltro nella stessa direzione, fra i colpi d’ala del libro di Miucci, l’accostamento tra l’estetica di Schiller e la musica di Beethoven nel segno di un comune superamento della semplice rappresentazione degli affetti. Resta fermo che la sintesi tra la consanguineità di musica, lingua, retorica e la specificità della musica, che si va sempre più emancipando dalle consorelle, è affidata all’evento esecutivo e chiama in causa un giudizio individuale basato sul “gusto” (la più settecentesca delle parole…). Oggi, in ogni caso, non è pensabile una sottovalutazione degli apporti della ricerca storica: in questo senso, il libro di Leonardo Miucci appare fra i risultati più avanzati e accurati.    

Leonardo Miucci. Le Sonate per pianoforte di Beethoven. Tra apprendistato e genialità. Le Sonate dalle WoO 47 all’op. 13. Serie diretta da Guido Salvetti sotto gli auspici della Beethoven-Haus di Bonn. Vol. II, LIM, Lucca.

Santi Calabrò

Santi Calabrò

Pianista e musicologo, suona per prestigiose istituzioni, tiene concerti-conferenza e partecipa a convegni in Italia e all’estero. Nelle ultime stagioni ha eseguito con successo diversi concerti per pianoforte e orchestra in Italia, Romania, Ucraina, Bulgaria, e ha tenuto recital e masterclass in varie città italiane ed europee. Svolge attività di critico musicale, pubblica articoli su riviste specializzate ed è autore di saggi per volumi collettanei; si occupa di analisi musicale, drammaturgia musicale, analisi dell’interpretazione, metodologia della tecnica pianistica. Fra i saggi recenti: Tra classicità e teoria degli affetti: Lili Kraus interprete di Mozart (nell’Ebook Punti e contrappunti), La lezione metodologica hegeliana e il “dramma” tonale del sonatismo classico (nel volume Il lamento dell’ideale. Beethoven e la filosofia hegeliana, Eut, Trieste), Artur Schnabel and the Harmonic Functions (nel volume Performance Analysis: a Bridge Between Theory And Interpretation - Cambridge Scholars Publishing), Trasmutazione di un archetipo e sue conseguenze nel I movimento della Sonata op. 110 di Beethoven (Rivista di Analisi e Teoria Musicale). Vincitore di concorso nazionale, insegna presso il Conservatorio di Messina.

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