di Gianluigi Mattietti
Al teatro Ariosto di Reggio Emilia è andata in scena una nuova produzione di The turn of the screw di Britten, come anteprima del Festival Aperto 2023, con la regìa di Fabio Condemi e la scenografia di Fabio Cherstich. Un allestimento lontanissimo dalla dimensione paesaggistica e vittoriana del romanzo di James, dove la natura idilliaca che circonda la residenza di Bly, nella campagna dell’Essex, ha sempre rappresentato la cornice ideale, perturbante, di questa ghost story, dove tutto è solo evocato, ipotizzato, suggerito, tra silenzi e sospetti.
Questo contorno naturalistico è stato il tratto dominante di tante regie di quest’opera, così come di tutte le trasposizioni cinematografiche del romanzo, da The Innocents (1961) di Jack Clayton, The Others (2001) di Alejandro Amenábar, The Turning (2020) di Floria Sigismondi, fino alla serie Netflix The Haunting of Bly Manor (2020) diretta da Mike Flanagan. Condemi e Cherstich hanno invece ambientato tutta l’opera in uno spazio claustrofobico, un enorme scantinato grigio, sotterraneo, inquietante. Si sono ispirati ai concetti di terribile-affascinante, ambiguo-attraente elaborati da Mark Fisher nel saggio The weird and the eerie, e all’immaginario sinistro e surreale delle fotografie di Gregory Crewdson (che a sua volta rimanda a David Lynch e Edward Hopper). Ma hanno soprattutto costruito quest’opera come un’istallazione, simile a quelle dell’artista Gregor Schneider, in particolare alla sua celebre Totes Haus Ur (La casa morta), che rivista gli spazi domestici come un’opera d’arte, rimontandoli in un gioco di scatole cinesi, creando percorsi claustrofobici e terrificanti.
Così l’opera di Britten era interamente ambientata in questa specie di grande garage dalle pareti grigie, immerso nella semioscurità, costruito con elementi modulari, una stretta scala di accesso da un lato, una piccola stanza con un letto dall’altro, una pedana piena d’acqua (che creava i riflessi luminosi del lago). Il fondale, che serviva all’occorrenza da schermo, si sollevava lasciando avanzare verso il proscenio una grande veranda, che si affacciava sul buio (nel quale si intravedeva solo Quint) e che “inscatolava” gli elementi naturali e esterni (come gli alberi che comparivano nella seconda scena, The Welcome; o i cumuli di neve nella scena del cimitero, The Bells).
Questi moduli permettevano giochi di incastri e giustapposizioni come in un montaggio cinematografico, ben disegnato anche dalle luci di Oscar Frosio (efficacissime nel rendere l’atmosfera soffusa, “candlelight”, nella scena della camera da letto, illuminata solo dalle due lampade, simile alle camere di Crewdson; o nel proiettare sul fondale l’ombra di Quint nella successiva, quando il fantasma induce Miles a prendere la lettera). Questo ambiente claustrofobico si inseriva in maniera molto logica nel progetto drammaturgico complessivo, perché la vicenda si snodava come un giallo, un’indagine condotta da un personaggio esterno, una specie di detective che ritrovava il diario dell’Istitutrice, e a partire dal prologo, nel quale viene narrato l’antefatto (elemento anche musicalmente esterno all’opera, un semplice recitativo accompagnato dal pianoforte, aggiunto tardivamente da Britten – che nell’allestimento reggiano sembrava uscire da un vecchio Revox), cominciava a proiettare su un piccolo schermo le pagine ingiallite di quel diario e le foto sbiadite che vi erano attaccate: ricordi frammentari, distorti, che via via si componevano in una storia, che mostravano gli spazi del parco e del lago intorno alla villa di Bly. L’elemento naturalistico, assente dalla scena, era quindi o inglobato negli interni o relegato a queste immagini proiettate, e si presentava come una realtà indefinita, confusa, sempre molto sinistra.
Bravissimi i due bambini, Ben Fletcher e Maia Greaves (dalla voce straordinariamente timbrata), molto credibili nel passare dalla dimensione innocente del gioco, a quella corrotta del mondo dei fantasmi (impressionante la scena finale del primo atto, At Night, dove apparivano come due impiccati, con il collo legato a due palloncini neri). Eccellente anche la prova dei due fantasmi: Florian Panzieri era un Quint elegante, azzimato e cereo, preciso nei suoi sinuosi e insinuanti vocalizzi nel registro acuto (spesso accompagnati da una celesta “obbligata”, che suonava come un inquietante carillon); Liga Liedskalnina era una Miss Jessel tormentata al punto giusto nel suo mesto melodizzare. Molto applaudite anche Chiara Trapani (Mrs. Grose) e Laura Zecchini, intensa e ben calata nel ruolo dell’Istitutrice (sdoppiato in scena da una muta alter ego), brava nel passare dalla paura alla ferrea determinazione della pedagogista, dal disteso lirismo al canto teso e isterico. Francesco Bossaglia ha diretto l’Icarus Ensemble cogliendo tutta la carica drammatica e sensuale e la forza evocativa di una partitura scritta con estrema parsimonia di mezzi, come un congegno di precisione.