di Cesare Galla
LA BIBLIOTECA DI LUIGI NONO – elemento centrale dell’Archivio del compositore veneziano scomparso nel 1990 – conta circa 13 mila fra volumi, partiture, manoscritti o dattiloscritti; di essi, 700 presentano una dedica autografa degli autori. In questo ricco giacimento, testimonianza della vasta rete di relazioni culturali e artistiche costruite dal compositore, oltre che dell’ampiezza delle sue amicizie e della sua curiosità intelletuale, la vedova Nuria Schoenberg ha scelto 40 “casi esemplari” per costruire un singolare piccolo libro, Per Luigi Nono – Dediche, pubblicato dalla Fondazione intitolata al musicista e uscito alla fine dell’anno scorso come omaggio nel novantennale della nascita.
Alle Sale Apollinee della Fenice (che quattro anni fa ha inaugurato la sua stagione con Intolleranza 1960) ne hanno parlato nei giorni scorsi due specialisti come Mario Messinis e Massimo Cacciari, chiamati da Nuria Schoenberg a illuminare il “contesto” di questa insolita operazione editoriale. È emerso un composito ritratto del compositore, nelle prospettive confluenti del grande esperto di musica contemporanea e profondo conoscitore dell’opera di Nono e dello stretto collaboratore-filosofo, autore dei testi del Prometeo e presente egli stesso nella silloge. Sintomatica la sua dedica in testa alla fitta cartella intitolata Un pre-testo: Nietzsche. “A Gigi – si legge in inchiostro rosso – per tutti gli angeli che mi ha fatto avvertire e i silenzi che mi ha fatto ascoltare”.
Da Claudio Abbado a Peter Weiss, nei quaranta autori (tutti illustrati in appendice con biografie sintetiche) che in epoche anche molto lontane e appartenendo a diverse generazioni hanno dedicato a Luigi Nono un loro libro, un’opera d’arte, un disco, si coagula l’immagine di una lunga stagione di arte impegnata, di avanguardia ardua ed estrema, di pensiero creativo profondo e fervido. Una stagione, la seconda metà del Novecento, della quale Luigi Nono è stato – come ha sottolineato Cacciari – protagonista assoluto, nonostante tutto libero da eccessi ideologici alla luce purificatrice della fede nell’innovazione del linguaggio artistico.
Appaiono Theodor Adorno e György Kurtág, Aldo Clementi e Helmuth Lachenmann; fuori dalla musica Italo Calvino e Giulio Einaudi, Tadeusz Kantor ed Erwin Piscator, Julian Beck e Luigi Squarzina, Nanni Balestrini e Giuseppe Ungaretti; fra i pittori, Emilio Vedova e Anselm Kiefer. Si colgono in filigrana le grandi amicizie (come quelle con Kurtág o anche con Pietro Ingrao, il leader del Pci che vagheggiava, nell’autografare il suo Tradizione e progetto “antichi discorsi e possibili – forse – nuove speranze”). Più difficilmente si “leggono” le incomprensioni o persino le freddezze, oltre la maniera. Lo ha rilevato Messinis a proposito del rapporto con Adorno, che nel settembre 1951 dedicava la sua Filosofia della Nuova Musica al “collega” veneziano, in realtà da lui inesorabilmente lontano proprio sul piano estetico e filosofico. E se nel 1983 il musicologo Massimo Mila si dichiarava non senza umorismo “un poco a testa bassa”, sul frontespizio del suo Compagno Stravinsky, 15 anni prima, nel ruggente 1968, il fondatore del Living Theatre, Julian Beck, poteva ancora vagheggiare la “bella rivoluzione anarchica e non violenta”.
Ma certo aveva visto lontano – oltre ogni ideologia e dentro l’arte capace di trovare la strada dell’innovazione – il poeta Giuseppe Ungaretti, quando aveva scritto nel marzo 1956 (Nono aveva allora 32 anni), firmando una copia di Un grido e paesaggi: “Per Luigi Nono, con la certezza che manterrà bellissime promesse”.