di Cesare Galla


Lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito il Novecento il “secolo breve”, e questa etichetta è ormai comunemente accettata: corrisponde a un’evidenza cronologica non solo nelle vicende politiche e militari, sociali ed economiche, ma anche in quelle dell’arte. L’aveva già notato Virginia Woolf, quando si era occupata della modernità nella letteratura: «Il carattere umano è cambiato verso il dicembre del 1910». Affermazione apodittica, naturalmente, ma con chiari riferimenti al movimento che aveva iniziato a spazzar via la tradizione ottocentesca, gravitando soprattutto (ma non solo) su Parigi nel giro dei pochi anni che vanno dalle Demoiselles d’Avignon di Picasso (1907) alla Sagra della primavera di Stravinskij (1913). Quanto alla conclusione del secolo breve, sono quasi tutti d’accordo che si debba far coincidere con la caduta del muro di Berlino e più in generale del comunismo ma non esiste in campo artistico analoga certezza cronologica. Perché se lo storico della musica inglese Tim Rutherford-Johnson in un saggio appena uscito in America autorevolmente prende il 1989 come punto di partenza per raccontare le vicende della “modern compostion” fino ai giorni nostri, si potrebbe anche sostenere che il Novecento sia tracimato nel secolo successivo, com’era accaduto con l’Ottocento, almeno per quanto riguarda la fase che per comodità chiamiamo della post-avanguardia. Finora, infatti, nel XXI secolo non si è proprio sentito quasi nulla che possa far pensare al grande cambiamento portato con sé dal secondo decennio del XX.

Così la pensa, ad esempio, Federico Capitoni: «Siamo comodamente nel XXI secolo da quasi venti anni ormai, eppure sentiamo il ’900 ancora ingombrantemente vicino, agganciato alle nostre vite non soltanto in termini generazionali, ma culturali». Capitoni è un giovane studioso di cose musicali, divulgatore e critico di qualità, e la frase che abbiamo appena citato è l’attacco del suo ultimo libro. Il quale, pur essendo un “catalogo” e una guida all’ascolto della musica del Novecento, si legge tutto d’un fiato. Come un saggio. Meglio ancora, un romanzo. Il titolo è molto attraente: Canone boreale (sottotitolo: 100 opere del Novecento musicale colto sopra l’equatore). Suggerisce allo stesso tempo una classifica soggettiva e una oggettiva volontà organizzatrice della storia e delle opere dell’arte musicale colta, o “classica”. Partendo dalla certezza che tutta la musica del Novecento sia, appunto “boreale”: così trasformato il vetusto e ormai superato concetto di musica “occidentale”.

Il libro (Jaca Book, 400 pagine, € 30,00) accetta la sfida di confrontarsi con il personale “canone” di ciascun lettore avvertito, ma nello stesso tempo propone al neofita un lungo viaggio, anno dopo anno, che alla fine costituisce un quadro molto vivace e per vari aspetti inatteso della musica del Novecento. E poiché per ciascun pezzo (che corrisponde a ciascun anno del secolo) viene offerta anche una discografia essenziale, il libro è anche un vero e proprio manuale pratico: grazie alla moderna tecnologia, è possibile controllare subito all’ascolto quello che Capitoni ha appena finito di raccontare. E anche questo la dice lunga sulla volontà di mettersi in gioco dello scrittore-studioso. Il quale peraltro non nasconde certo quale sia la sua “linea”: la modernità che più apprezza è americana, parte da Charles Ives e ha i suoi grandi in John Cage, La Monte Young, Terry Riley. Autori “duri e puri”, corifei di un modo di “pensare” musica nel quale il suono ha la natura del filosofema e ne esprime la forma e la struttura. Un approccio che poi si è in certo modo banalizzato nel minimalismo. Invece, oltre la fase storica della “Nuova Musica” europea (lungo il duplice asse Stravinskij-Schoenberg e relativi imitatori-continuatori), la cosiddetta avanguardia post-weberniana secondo l’autore si è macchiata di storiche colpe nei confronti del linguaggio musicale in quanto tale e nel rapporto con il pubblico, ignorato e perfino vilipeso.

Il viaggio nel XX secolo inizia con George Enescu e il suo Ottetto per archi, anno 1900. E già questa è una scelta che la dice lunga sul fatto che in questo libro non si trovano (troppe) concessioni all’astrusa élite. Il percorso delinea attraverso la cronologia alcuni filoni, se così vogliamo chiamarli: l’eredità ottocentesca, mai vituperata e anzi analizzata con vivacità e freschezza, individuata lucidamente anche molto avanti nel secolo; la modernità nelle sue varie manifestazioni, di qua e di là dell’Atlantico, fino alle radicalizzazioni più spinte; la popolarità nella ricezione, che fa comunque trovare spazio in questo Canone a musicisti molto eseguiti e molto ascoltati ma in genere non troppo considerati dal punto di vista critico, come Carl Orff, Jan Sibelius, Karol Szymanowsky, Frank Martin.

Del resto, proprio la struttura del libro invita a vedere chi c’è e chi non c’è. E si può intanto osservare che solo tre compositori hanno l’onore di una doppia presenza, ovviamente in anni diversi: Stravinskij, Schoenberg e Cage. E solo uno è trattato addirittura tre volte: György Ligeti, con Atmosphères (1961), l’opera Le grand macabre (1975-77) e il Concerto per violino (1989-92). Composizioni raccontate e descritte da Capitoni con scrittura brillante e intuitiva, in maniera ad un tempo comunicativa e profonda, mai banale, effettivamente illuminante. E con una passione che chiarisce il suo profondo apprezzamento.

Poi ci sono scelte singolari, talvolta spiazzanti, comunque legate a una visione molto netta e per nulla disposta a compromessi. Stupisce ad esempio che Bela Bartók sia presente solo con l’opera Il castello di Barbabù e non per le sue straordinarie pagine orchestrali o cameristiche, che hanno avuto enorme influenza sulla musica del secondo Novecento. Che Richard Strauss entri nel Canone per il rotto della cuffia, grazie ai Quattro ultimi lieder e non ad esempio per il suo teatro musicale di inizio secolo. Che per quanto riguarda l’avanguardia italiana si faccia spazio con benevolenza a un autore controverso come Giacinto Scelsi e con severità a uno come Luigi Nono, considerato condizionato da rigido ideologismo politico e astratta incomunicabilità musicale, così come il suo collega Pierre Boulez viene giudicato, non a torto, colpevole di settarismo radicale e deteriore, giunto a nefaste conseguenze generali in virtù dell’autorevolezza dell’artista. Ma poi le pagine sul Marteau sans maître (1954) sono magnifiche e riconoscono l’altezza di questo capolavoro.

È chiaro che Capitoni considera l’Italia piuttosto marginale nella musica del Novecento. Salvo raccontare i “rumori” futuristi di Luigi Russolo, non considera degno di nota nessuno dei protagonisti della fase “storica”, come Respighi, Casella, Malipiero, Pizzetti, Mascagni. Quanto all’avanguardia, oltre Scelsi, Nono e Sciarrino non c’è spazio per nessuno fra i vari Clementi, Evangelisti, Donatoni, Bussotti, Castiglioni, Togni, per citare personaggi considerati di qualche rilievo dalla vulgata musicologica degli anni Settanta e Ottanta. Semmai si trova Ennio Morricone ma non in quanto allievo di Petrassi (peraltro citato) ma per le colonne sonore della trilogia western “del dollaro” di Sergio Leone. Che, beninteso, è grandissima musica di genere. Quanto alla generazione successiva a quella di chi andava a Darmstadt, è rappresentata solo da Giorgio Battistelli, giustamente come autore teatrale (Experimentum Mundi, 1981). E forse è una visione un po’ restrittiva.

Fin dagli anni Settanta entrano nel Canone boreale i protagonisti di una musica capace di andare oltre i confini di genere o di farsi apprezzare per la sua qualità autonoma, ellittica rispetto ai rigori e ai furori avanguardistici (Pärt, Gubajdulina, Dutilleux), ferma restando la “stella polare” Ligeti. Si dà spazio a Keith Jarrett per il suo Concerto di Colonia (1975), musica improvvisata che arriva allo statuto di musica composta in virtù del suo successo, e anche – molto più a ragione – a un autore complesso e “ingannevole” come Frank Zappa, “raccontando” il pezzo per sola batteria intitolato The black page. Qualche anno più tardi, e ormai siamo agli sgoccioli, si guarda all’Oriente occidentalizzato di Tan Dun, alla finlandese Saariaho, definita “la maggiore operista contemporanea” (ma quante sono le sue colleghe?).

Il secolo finisce musicalmente in una sorta di terra di tutti e di nessuno, lontana dalla complessità psichica e percettiva dell’avanguardia americana, come pure dalle intemperanze strutturaliste dell’avanguardia post weberniana. In cerca di un’identità che vada oltre la diffusione dell’ascolto garantita dal mondo digitale. Ha ragione Capitoni: dopo quasi vent’anni di XXI secolo, la direzione della musica colta non è ancora chiara. O forse, semplicemente non esiste.

Cesare Galla

Cesare Galla

Scrive di musica dall'età di 20 anni, quando ancora seguiva gli studi musicologici nelle università di Bologna e Venezia, dopo il liceo classico. A 25 è diventato giornalista professionista e ha lavorato al Giornale di Vicenza come redattore, caposervizio e vice caporedattore fino al dicembre del 2014.Si è occupato di cronaca nera e bianca, di politica, di web e mondo digitale e soprattutto di spettacoli e cultura, guidando fino al 2012 le pagine ad essi dedicate. Contemporaneamente, ha sempre svolto la critica musicale, dal 1996 anche sul quotidiano veronese L’Arena. Negli ultimi 40 anni ha recensito migliaia di concerti e centinaia di rappresentazioni operistiche e ha pubblicato alcuni libri (sulle Sinfonie di Beethoven, sulla storia della Società del Quartetto di Vicenza, sul festival Settimane Musicali al teatro Olimpico, sulle rappresentazioni verdiane nel Veneto, raccontate attraverso cinque lustri di recensioni). Oggi collabora da "cronista di musica" e osservatore del mondo della cultura con Il Corriere Musicale, con il magazine culturale on line Doppiozero e con il quotidiano on line Tag43. Il suo sito personale d'informazione, musicale ma non solo, è www.cesaregalla.it.

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