di Marco Testa


PER UNA NUOVA FETTA DI PUBBLICO ITALIANO, lo scrittore boemo Karel Čapek (1890-1938) sembra essere un perfetto sconosciuto. Fatto curioso, non tanto per la fortuna che, un po’ a macchia di leopardo a dire il vero, egli gode nel resto d’Europa, quanto per la potenza evocativa che gli scritti di quest’uomo dalle più disparate esperienze culturali veicolano: figura spiccatamente poliedrica, autentico maestro della penna, Čapek alternò l’attività di scrittore e drammaturgo a quella di giornalista, piccandosi di un po’ di tutto: di arte, di musica, di politica, di filosofia, di giardinaggio persino. Egli apparteneva, infatti, a quella schiera di intellettuali che prediligono la profondità interdisciplinare alla specializzazione, ancorché di competenze specifiche fosse tutt’altro che privo: studente all’Università di Praga, si laureò in filosofia con una tesi in estetica. Scrittore di indubbia raffinatezza, artigiano di parole, si è soliti attribuirgli la paternità nientemeno che del termine robot (paternità che invero spetta al fratello, il pittore cubista Josef Čapek), termine che adoperò per la prima volta nel dramma fantascientifico R.U.R. (I robot universali di Rossum, 1921). Lo stesso Isaac Asimov, che dei robot fece la sua industria più redditizia, non mancò di pagare al Čapek il proprio tributo.

0697 COP_9523_CapekFoltin_ok:SKIRALa vita e l’opera del compositore Foltýn, appena riedito in Italia da Skira dopo un lungo oblìo (per trovare un’altra edizione nella nostra lingua occorre ritornare al 1988), è l’ultimo romanzo e insieme l’ultima opera dello scrittore boemo, sfortunatamente rimasta incompiuta perché nel frattempo, precisamente il giorno di Natale 1938, Čapek morì stroncato da una polmonite, all’età di quarantotto anni. Pubblicato postumo, nel ’39, il Foltýn ci appare come un vero e proprio omaggio all’arte, nei confronti della quale Čapek mostra profonda sensibilità e ampia dottrina; immaginiamo che la vicinanza con il fratello pittore dovette rafforzare non poco, in lui, l’interesse e la riflessione intorno alle arti figurative e all’arte in genere: salvo episodi particolari, non si può dire che nel libro vi sia una riflessione ponderata e coerente sulla musica, ma di discorsi trasversali sull’estetica, sull’arte e sulla condizione in cui versa l’artista, il Foltýn è pieno zeppo, inarrestabile fonte di spunti e impietosi interrogativi.

La trama si riassume in quanto segue: essa narra del come il giovane Beda Folten (occidentalizzazione del ceco Bedřich Foltýn) trascorre la sua intera esistenza cercando di diventare un musicista affermato e trovare finalmente la propria strada da artista. Per tutta la vita, Foltýn, che si reputa un genio, rimane ossessionato da questa idea e, insieme a essa, dal proposito di comporre un’opera che abbia come protagonista il personaggio biblico di Giuditta. Incapace di dare forma al suo progetto per mancanza del talento e della perizia necessari, assolda tutti i musicisti, drammaturghi e poeti che può (checché poi sostenga, wagnerianamente, che il compositore debba scriversi da sé il libretto per la propria opera), pagandoli profumatamente perché portino a termine l’impresa. Alla fine, fallito il suo intento e preso atto della propria inadeguatezza, Foltýn diventa pazzo, pone fine al suo matrimonio e va a condurre una vita di stenti. Solo allora dirà di sentirsi finalmente libero, perché «l’artista è più artista nella miseria e nel fango». Di lì a poco, la fine: al suo funerale la salma viene accompagnata dalle note all’organo del Largo di Händel.

La caduta in disgrazia di Beda Folten non è che la naturale parabola di un personaggio decadente e antiromantico, certo agli antipodi rispetto alla figura del superuomo dominante a quel tempo. La sua sventura somiglia alla sventura del popolo di Čapek, abitante di una terra, quella dei Sudeti, oramai prossima a essere ceduta alla Germania nazionalsocialista in virtù degli accordi di Monaco del ’38.

Carattere peculiare dell’opera è certamente la sua particolarissima costruzione formale: a metà strada tra (pseudo) biografia e perizia giudiziaria, a ciascuno dei nove capitoli che costituiscono lo svolgimento del racconto Čapek fa corrispondere la testimonianza di una persona che per i motivi più disparati ha a che fare con Foltýn: dagli amici (o presunti tali) alla moglie Karla, dai vecchi compagni di scuola ad affermati musicisti, sicché i punti di vista sul Nostro sono molteplici e non di rado discordanti. Čapek fu abilissimo nel calarsi in ciascuno dei suoi personaggi, offrendo angolature sempre nuove e inedite, a cominciare dal protagonista stesso. Checché ne dica di sé, dell’artista il giovane Foltýn non ha che l’aspetto: dei lunghi capelli biondi che agita vezzosamente con fare da bohémien, un naso aquilino e degli occhi chiari che ci fanno sospettare che Čapek avesse preso a modello il giovane Franz Liszt. Ad ogni modo, la somiglianza tra i due si ferma qui, perché della concretezza, della profonda cultura e del mestiere dell’autore della Liebestraum e della Lugubre gondola, Foltýn ha davvero poco. Non che sia del tutto privo di talento, come il resoconto di Jan Trojan, uno dei musicisti a cui Foltýn chiede suggerimenti per la sua Giuditta, testimonia: «[Foltýn]», dice Trojan, «si sedette al pianoforte e suonò pari pari dalla prima all’ultima nota la mia variazione in scala maggiore; doveva avere una straordinaria memoria musicale». E se lo stesso personaggio lo rimbecca, sottolineando il suo imbarazzo «davanti a compiti che ogni mediocre allievo di conservatorio deve saper eseguire all’istante», deve però concludere: «stando ad alcuni saggi che mi aveva suonato, aveva proprio un raro talento».

Chi è dunque Beda Folten? Un vile millantatore o un talento incompreso? Un vero artista o un abile falsificatore? Difficile dire. Poco prima di morire, Čapek descrisse il personaggio da lui creato come «menzognera fantasia, senza una briciola di vera realtà». Ad ogni modo l’ultima risposta, tanto più per un testo già proposto come estremamente  originale e che, lo ricordiamo,  è rimasto  peraltro incompiuto, dovranno darla la sensibilità e la curiosità del lettore.

Marco Testa

Marco Testa

Cresciuto nell'isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente dell'Accademia Corale "Stefano Tempia" (guida all'ascolto/storia della musica), attualmente è docente di storia della musica presso IMUSE Torino e collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli pubblicati in riviste specializzate, lavora principalmente per l'Archivio di Stato di Torino e scrive su "Musica - rivista di cultura musicale e discografica" e su "Il Corriere Musicale".

CorrelatiArticoli

Articolo successivo

Recensioni

Ben ritornato!

Login to your account below

Retrieve your password

Please enter your username or email address to reset your password.

Are you sure want to unlock this post?
Unlock left : 0
Are you sure want to cancel subscription?