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In scena al Regio fino al 22 gennaio l’opera di Giacomo Puccini. Successo personale per Marcelo Álvarez. Bene la parte musicale, poco convincente la regia
di Attilio Piovano
Successo per «Tosca», al Regio di Torino, martedì 10 gennaio 2012, con un vero e proprio trionfo per Marcelo Álvarez nei panni di Mario Cavaradossi. Merito di un cast di ottimo livello – per questo secondo titolo di stagione, dopo il fortunato «Fidelio» – e merito altresì di una direzione eccellente, quella di Gianandrea Noseda. Ben più di qualche legittima perplessità (come diremo) ha destato invece la regia. Ma andiamo senz’altro con ordine ed esaminiamo in dettaglio le varie componenti dello spettacolo. Il cast dunque. Álvarez, applaudissimo, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo collettivo e ovazioni protratte nei punti culminanti, si è meritato appieno i consensi, occorre ammetterlo, già nel corso del primo atto con «Recondita armonia», affrontata con accenti accorati e squillo sicuro. Álvarez è un artista completo e possiede la caratura giusta per affrontare il ruolo di Cavaradossi: tecnica impeccabile, potenza sonora, spirito aitante, ma anche garbo, eleganza e finezza introspettiva (elementi questi non sempre scontati), soprattutto non indulge, per fortuna, a quei gigionismi plateali che talora offuscano le pur valide prove di tanti artisti.
Noseda ha fatto un lavoro certosino, e lo si sente, eccome. La sua è una lettura che definire analitica può ingenerare qualche equivoco, ma è proprio così
Qualcuno gli imputava passaggi di registro non perfetti, ma non li abbiamo rilevati come tali. Sicché lo si è ammirato con piacere in «E lucevan le stelle», culmine drammatico del terz’atto, dove Álvarez ha raggiunto l’apice della sua interpretazione, ben assecondato da un’orchestra in gran forma e, in particolare, grazie alla pasta morbida del clarinetto di Luigi Picatto. Quanto alla protagonista femminile, è stata la bella, anzi bellissima Svetla Vassileva a vestire i panni di Floria Tosca. Presenza scenica superlativa, si muove bene sulla scena; la sua interpretazione vocale ha convinto, senza però raggiungere vertici assoluti. Le si può rimproverare un eccesso di vibrato, innanzitutto, e forse anche una certa qual disomogeneità timbrica (specie nel registro medio dove non sempre l’emissione è corposa). L’aspettavamo al varco in «Vissi d’arte», banco di prova irrinunciabile. Se l’è cavata bene, molta l’intensità ed il pathos, anche se forse mancava un quid di magnetismo in più che avrebbe mandato alle stelle il pubblico, ma così non è stato. Bene, per contro, la sua partecipe interpretazione della parte finale dell’opera, quanto a vocalità e introspezione psicologica, sia pure entro un impianto registico di dubbia efficacia (ma ne parliamo tra poco, ci perdoni il lettore).
Per ora restiamo sul fronte delle voci. E allora Scarpia: lo impersonava Lado Ataneli che altre volte abbiamo assai apprezzato. In questo caso ha convinto solo in parte, lo avremmo voluto (vocalmente) più cattivo, più possente, più… come dire, più credibile (anche sul piano della presenza scenica, pareva parecchio impacciato, più impaziente che minaccioso). Pur corretto, non ha però innescato quei brividi che la sublime partitura pucciniana presuppone. Quanto ai comprimari apprezzata l’appropriatezza del basso Francesco Palmieri (Angelotti), così pure la comicità contenuta e non sbracata del baritono Matteo Peirone (il sagrestano), bene poi anche Luca Casalin (Spoletta), Federico Longhi (Sciarrone) e bene senz’altro il pastorello di Esther Zaglia, voce intonata (pare ovvio, ma non sempre è così), udibile da tutto il teatro e decisamente sicura. Ed ora l’orchestra e la direzione: Noseda ha fatto un lavoro certosino, e lo si sente, eccome. La sua è una lettura che definire analitica può ingenerare qualche equivoco, ma è proprio così. Noseda cesella ogni particolare, timbrico, di fraseggio, dinamico e via dicendo, facendo sentire tutto, ma proprio tutto e ponendo in luce anche ogni minimo dettaglio, ma, al tempo stesso, senza mai perdere di vista la visione completa e d’insieme. E l’orchestra ch’egli domina con mano salda lo ha seguito magnificamente. Talora in «Tosca» gli strumenti appaiono come agglutinati, come in un pastone informe, alonato, confuso: ecco, con Noseda e con l’orchestra del Regio, per fortuna, avviene esattamente il contrario. Indugia dove occorre (per dire, nei già citati luoghi topici, «E lucevan le stelle» e «Vissi d’arte») facendo respirare le voci comme il faut, mentre infonde scorrevole vivacità a quei passi della partitura che lo richiedono, a partire dall’esordio. E poi: quante preziosità, quanta cura ad esempio nel delineare i calchi pseudo settecenteschi delle ‘gavotte’ in lontananza durante la festa notturna percepita da Palazzo Farnese, o quanta leggerezza nello sbozzare l’alba romana dagli scampanii arcani, nell’evitare la leziosaggine nei toni lepidi del sagrestano, ma anche poderose sonorità per l’ingresso del corteo con il «Te Deum».
E allora il Coro del Regio: ottimo, affidato alle cure di Claudio Fenoglio e davvero eccellente anche il coro di voci bianche (del Teatro Regio e del Conservatorio ‘G. Verdi’ di Torino). E a questo punto, in luogo di un prevedibile dulcis in fundo, occorre soffermarsi invece, ahinoi, sulle dolenti note della regia. Lo spettacolo del Regio, sostenuto da Compagnia di San Paolo, nuovo allestimento in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, Opéra de Monte-Carlo e Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago, denota infatti sul lato scenografico e registico, appunto, gli aspetti meno convincenti, anzi in qualche caso a dire il vero piuttosto sconcertanti. La regia reca la firma di Jean-Louis Grinda, mentre delle scene si è occupata Isabelle Partiot-Pieri e dei validi costumi Christian Gasc (buone le luci, anche se un po’ fredde di Roberto Venturi). Una regia, quella di Jean-Louis Grinda, che per sua stessa ammissione, proponendo come sottotitolo – sono parole sue – un’improbabile «caduta dell’angelo», intende l’opera quale flashback vissuto dalla protagonista nel corso di una intera, terribile giornata. E allora dovrebbe trovare giustificazione (e senso) la proiezione iniziale – prima ancora che risuonino le note dell’introduzione – di un video con il suicidio di Tosca: sulla carta ci può anche stare, all’atto pratico a nostro avviso un flop clamoroso. Coerentemente, in luogo del tradizionale salto nel vuoto dagli spalti di Castel Sant’Angelo, Tosca da ultimo sale in alto sulla piattaforma, dopo che due elementi semi circolari hanno ruotato, riunendosi e facendo da coreografica cornice alla statua dell’Angelo. Lei stessa atteggia il corpo a contraltare dell’Angelo, ponendosi davanti alla statua stessa e guardando il pubblico (anziché come di norma di spalle) e viene a quel punto fatta oggetto di nuove proiezioni che ‘mimano’ il salto, con effetto quanto meno discutibile. Certo, si capisce la scena si propone ruotata di 180 gradi, ma è artificio macchinoso e di scarsa resa.
Altri dettagli hanno ancor meno convinto, a partire dalla cappella degli Attavanti che, chissà perché, in spregio alle didascalie, è invece una cripta con tanto di grata da cui si calano Angelotti, dapprima, poi gli sbirri all’arrivo in scena. Quanto al celebre ritratto che Cavaradossi sta realizzando, è posato in orizzontale sul pavimento e Cavaradossi pare più un madonnaro che un pittore. Frontale e un po’ rigido l’ingresso del corteo per la processione in Sant’Andrea della Valle: si sarebbe potuto muovere meglio le masse, di scorcio, di sguincio con una prospettiva meno banale (idem per il plotone che ‘punta’ su Cavaradossi di spalle al pubblico, dunque ‘punta’ sulla sala, vorrebbe regalare qualche emozione, in realtà fa sorridere). Bene invece i ragazzini ed il sagrestano. Molto strano, per usare un eufemismo, il lungo tavolo della stanza di Scarpia a Palazzo Farnese, quasi simbolica pietra tombale (a questo alludevano immaginiamo il colore grigio e le venature marmoree come pure il sedile che in realtà pare più una lapide): più adatto il tutto forse ad un «Don Giovanni» e, più ancora, un po’ troppo didascalico, sì da far torto all’intelligenza del pubblico. Sul fondo una cartografia di Roma che si illumina di puntolini, quasi a prefigurare l’antecedente di una moderna sala operativa della Questura. Ma – tocco di calligrafica raffinatezza – compare poi un fondale (a rendere il senso dell’alcova) con la riproduzione della parte centrale del quadro dal titolo «Tarquinio e Lucrezia» del Tintoretto.
Incomprensibile invece (per non dire francamente bislacca) l’idea di far sollevare a cofano (taluno diceva ad asse da stiro) due terzi del tavolo stesso, dal cui lato, come da un boccaporto, entrano ed escono Spoletta & co. per la tortura del povero Mario. Tosca, rosso vestita, infierisce con insolita ed iterata ferocia, brandendo una lama esageratamente lunga sul corpo di Scarpia. E dire che Noseda, in intervista, ha saggiamente dichiarato che «Tosca non va trattata come un’opera verista, perché non lo è». Parole sante, come dargli torto. Grinda, verosimilmente è di diverso avviso. Non devono essersi intesi su tale punto. Risparmiato invece il consueto rito dei candelieri a lato del perfido Scarpia ormai cadavere. Sicché di questa Tosca torinese di inizio 2012 conserveremo a lungo un gradito e nitido ricordo, quanto a realizzazione musicale, mentre cercheremo di dimenticare presto il poco condivisibile côté scenico. Tutto esaurito e ben 11 repliche (due i cast) sino al prossimo 22 gennaio.
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.. ha ben ragione il lettore Ignazio De Simone, che ringrazio per la puntuale (e giusta) annotazione. Sono d’accordo: immagino che in tal caso la visione del regista abbia avuto la meglio, prevalendo su quella musicale (ovvero sulla direzione di Noseda). È una mia congettura, prelatro non vedo altre possibili spiegazioni. Grazie poi anche a Roberto Matteucci il quale, pur prendendo democraticamente atto delle riserve sulla regia degli ‘integralisti dell’opera’ (dunque arruolando anche il sottoscritto, forse lo ammetto, sono stato eccessivamente severo…) sottolinea poi il dato del tutto esaurito: da pucciniano sfegatato (e da torinese doc) non posso che esserne stra felice, del resto nella recensione l’ho ben sottolineato, e dunque siamo tutti d’accordo. W la (bella e grande) musica, e Puccini in primis. Grazie a tutti. attilio piovano
E che dire della “Cantata” che, voluta “in interno” da Puccini è stata portata di forza in scena con effetto musicale a dir poco imbarazzante? Dov’era, qui, Noseda?