Alla guida dello Junges Stuttgarter Bach-Ensemble una lettura molto approfondita della messa in si minore presso il Teatro Manzoni di Bologna
di Andrea Bellini
La prima sensazione avuta nel momento in cui si abbassavano le luci nella sala del Teatro Manzoni era quella tipica dei momenti che precedono un evento mistico, difficile da spiegare; l’idea del sacro si stava impadronendo di noi spettatori davanti a questo capolavoro (termine quanto mai abusato tanto da dimenticarsene quando è appropriato come in questo caso) che nonostante gli sforzi musicologici, si fatica a trovare le parole giuste tali da penetrarne appieno le profondità, tanti sono gli strati di significanti diversi, religiosi, musicali o extramusicali insieme. Il motivo – e il paradosso insieme – della nostra pochezza davanti a quest’opera grande (nel senso di estesa) e grandiosa al tempo stesso è che questa Missa, trasposizione dunque in musica dell’Ordinarium romano, risulta di difficile realizzazione all’interno del suo contesto ideale (la messa appunto) ed è possibile solo in forma di concerto; destino crudele di cui forse lo stesso Bach ne era conscio in partenza dato che nemmeno in vita ebbe il piacere di ascoltarla per intero ma solamente “a pezzi”. C’è da dire che la gestazione lunghissima, dal primo troncone (Kyrie e Gloria) iniziata nel 1724 e dedicate al Principe Elettore di Sassonia conte von Keyserlingk futuro Re di Polonia nel 1733 come premio per il titolo di compositore della corte dell’Elettorato, fino agli ultimi atti composti l’anno prima della morte (l’Agnus Dei con un Bach già sofferente) ne fanno un’opera eterogenea di stili tanto che anche la questione della collocazione religiosa (rito luterano o cattolico) diventi un falso problema; “magistralmente in bilico tra le due liturgie” scrive Piero Buscaroli (Bach, pag. 877) tanto che lo stesso Sebastian nel lascito al figlio Emanuel fa apporre la dicitura “Die Grosse Catholische Messe” (ibidem, e con buona pace di tutti!). In più la Messa del 1733 ha originariamente più della cantata profana che non della musica da chiesa, tanto più che il destinatario è un laico, pur se di fede cattolica, il che ci far pensare che Cantata, Oratorio, Messa siano per Bach sostanzialmente equivalenti!
Il “grande architetto” è però, come si conviene, anche un abile demolitore; di convenzioni innanzitutto, dal momento che affianca ad uno stilo antiquo (o per lo meno lo attutisce) sulla forma di mottetto a più voci, uno più moderno, dove le arie affidate ai solisti sono “accompagnate” di volta in volta da diversi strumenti in stile concertante, in una sorta di “abbraccio” musicale a due che ha più del profano che non del sacro (strepitosa quella per contralto dell’Agnus Dei scritta quasi in fin di vita nel 1749!). Nonostante questo, il sacro è sempre presente, a ben vedere più mistico che religioso. L’impressione dunque è che Helmut Rilling sappia perfettamente ciò (o almeno ci auguriamo di aver visto giusto!), nel richiedere il mantenimento di un suono controllato, “asciutto”, ben realizzato dai giovani musicisti dello Junges Stuttgarter Bach-Ensemble, con staccati precisi e al limite dell’accentuazione, ed il pensiero è andato subito a Glenn Gould (mi si perdoni l’azzardo) in specie al suo imperativo sonoro, nel comprimere il suono del “suo” possente ed amato gran coda Steinway quasi a nasconderlo dentro le sembianze di un clavicordo o di un clavicembalo, di sonorità questi ben più compresse. Ed il sentore di quelle scelte sofisticate, che per qualcuno risultano invece urtanti ed incomprensibili (ma quanta purezza in quel suono algido, e che precisione!) sono emerse nella lettura di Rilling con un ventaglio di emozioni (pur se spesso controllate) quali ci ha offerto fin dall’inizio, in quel Kyrie in un tempo più che Adagio, con l’alternarsi di legato e staccato così marcati pur non essendoci segni specifici in partitura.
Il magistero di Bach (e l’abilità di Rilling) è anche nell’esaltare le scelte timbriche nelle diverse arie, sottolineate anche dal gesto dell’alzarsi in piedi degli strumenti concertanti, sullo stesso piano delle voci; del resto Bach ci ha abituati bene, ma qui la sapienza con cui tratta impasti timbrici è al massimo livello, come per esempio nella scelta di uno strumento molto particolare come l’oboe d’amore, utilizzato persino due in coppia sia nel Kyrie iniziale sia nel primo numero del Gloria ed a cui affida un obbligato nell’aria per contralto Qui sedes ad dexteram Patris sempre nel Gloria. L’oboe d’amore è strumento inusuale oggi, tagliato una terza minore sotto all’oboe e quindi si piazza in un registro mediano rispetto a questo ed al corno inglese, che ne rappresenta il registro più grave della famiglia degli oboi; strumento dimenticato per lungo tempo fu recuperato ad esempio da Richard Strauss nella Sinfonia Domestica e che ha un suono corposo ed avvolgente tanto da far pensare ad un clarinetto o al sax soprano (strumento questo usato quasi esclusivamente nel jazz) e che col clarinetto ad esempio Ravel fa duettare nel celeberrimo Bolero. A volte però Bach all’omogeneità tra tessiture diverse, preferisce accentuare un particolare registro, come nell’aria per basso Quoniam tu solos dove al continuo (qui un solo violoncello ed un contrabbasso assieme all’organo) si contrappongono il corno da caccia ed i due fagotti in uno stupendo intreccio a 4.
Ma i momenti più significativi e dove l’emozione è palpabile in sala sono nei movimenti lenti, nei passi in cui si tratta della Passione e Morte del Cristo, come nel Et incarnatus est e nel Crucifixus conseguente contenuti nel Credo; le melodie discendenti che il coro delinea con un forte connotato emotivo, rimandano a sentimenti di dolore e di meditazione profonda. Il coro è davvero il protagonista assoluto di tutta la composizione, non solo nelle canoniche 4 voci, anche a 5, 6 fino ad 8 voci in coro doppio, e dove a volte si trova a dialogare solamente col basso continuo (come nel Confiteor del Credo) oppure come un organo “a pieni polmoni” come amava definirne il suono possente, a sovrastare l’orchestra nel coro conclusivo del Credo, i due momenti probabilmente più felici per l’Ensemble di Stoccarda.
In tempi come questi, dove ai primi furori filologici alla ricerca (vana) di una prassi esecutiva ormai perduta ed improponibile alle nostre orecchie abituate alla grande orchestra (abbiamo ancora in testa le masse orchestrali dell’Ottava di Bruckner!) oggi assistiamo ad una ricerca più ragionata, forse più vicina ad una “buona” esecuzione, anche se personalmente due violoncelli e due contrabbassi in più non avrebbero guastato. Mi scuseranno i puristi, ma era lo stesso Sebastian che regolarmente si lamentava di organici mediocri e, soprattutto, numericamente scarsi, salvo poi gongolare davanti ad orchestre più numerose, come nella prima esecuzione della Matthaus Passion il Venerdì Santo nell’aprile del 1724 a Lipsia con più di 40 esecutori a disposizione. Ciò nonostante lungo il corso della serata ci si adagia volentieri su un suono comunque eccellente e dove gli strumenti concertanti (dal primo violino al violoncello, applauditissima, allo stesso oboe) emergono con giusto merito.
È difficile concludere, tanti sono i momenti da raccontare, e tanto ci sarebbe ancora da dire, ma due annotazioni finali credo meritino uno spazio: purtroppo il tedesco dei cantanti patisce una certa durezza nella pronuncia di consonanti troppo marcate o sibilanti, a scapito di un po’ di musicalità. Al contrario è nota lieta verificare come la componente femminile in orchestra sia pari se non superiore a quella maschile; in tempi di proposte, anche discutibili perché usate in modo strumentale dalla politica, di imporre “quote rosa” a tutti i costi e che reputo anche un po’ offensive poiché deve prevalere sempre il merito e non il genere, soprattutto in contesti musicali, la presenza di molte donne è sicuramente un dato che differenzia questa compagine dalla maggioranza delle orchestre italiane.
Ultimissima annotazione: in un Teatro Manzoni rispettosissimo ed attentissimo, il suono di una sveglia (non si sa se proveniente da un telefono o da un orologio) proprio durante un passaggio delicato come nell’Incarnatus est è segno di maleducazione ma – purtroppo e non solo – un motivo in più per farci considerare all’estero come pubblico poco incline riguardo all’adempimento di regole seppur elementari, e una mancanza di rispetto nei confronti di chi sta suonando (e lavorando!).