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Recensioni • Iván Fischer alla guida della Budapest Festival Orchestra, la violoncellista Natalia Gutman accompagnata da Vyacheslav Poprugin: sono solo alcuni degli interpreti che abbiamo ascoltato nel festival articolato tra Milano e Torino
di Attilio Piovano
Dopo l’applaudita serata iniziale, l’edizione 2013 del festival MiTo prosegue registrando vivaci successi. Ecco allora un estratto dal diario di bordo sul versante torinese che ha visto la presenza in esclusiva di complessi e artisti non inclusi nel côté milanese. È il caso della Budapest Festival Orchestra, che, ottimamente diretta da Iván Fischer il 6 settembre al Regio ha offerto una interpretazione davvero coinvolgente del bartokiano Mandarino meraviglioso: ottima l’idea di avvalersi dei sopra titoli che hanno aiutato il pubblico a seguire da presso la vicenda del fosco dramma coreografico. Lettura lucida ed analitica, quella di Fischer, ammirevole la tenuta complessiva per tensione ed efficacia, tra fascinosi momenti di languore e passi incandescenti, dagli immani clangori. Molto suggestiva l’idea di disporre il Coro del Regio (guidato da Claudio Fenoglio) a fondo sala, con gradevole effetto stereofonico, per il breve, ma incisivo intervento finale (peraltro ad libitum, e infatti raramente lo si sente ed è un peccato perché aggiunge pigmento). In apertura l’ottima Budapest Orchestra aveva proposto le Danze popolari rumene facendole precedere dagli originali autoctoni poi rielaborati dal sommo Bartók: trouvaille valida e pregevoli i tre professori emersi dall’orchestra (violino, viola e contrabbasso) che si sono prodotti a mo’ di mini orchestrina popolaresca (ma quanta professionalità in quei glissandi e quei suoni), per contro un’esecuzione con tale espediente pur lodevolmente didascalico finisce per spezzare un poco la continuità di ciò che siamo abituati a considerare ormai un ciclo unitario. Il pubblico ha però mostrato di gradire la l’innovativa proposta, quanto meno nelle nostre contrade. Poi seconda parte nel segno di Dvořák. Dapprima l’effusiva Leggenda op. 59 n° 10 che, coi suoi colori ora elegiaci, ora più estroversi, ha consentito di porre in luce le ottime doti di cantabile degli archi della Budapest Orchestra che dispone di superbe prime parti in tutte le sezioni. E che infine ha offerto una impareggiabile interpretazione dell’Ottava Sinfonia traboccante di charme. Che gioia la curva melodica dei passi cantabili e quanta energetica carica nei momenti fosforescenti (e sono tanti). Molta cura nella concertazione del toccante Adagio, infinita grazia nel soave Allegretto e lo sfolgorio del finale dalla fanfara luminosa come un diaspro. Gran festa, pubblico in visibilio e due danze slave come bis.
NATALIA GUTMAN – VYACHESLAV POPRUGIN

Un grave problema di salute del pianista Oleg Maisenberg ha fatto saltare l’atteso recital di Gidon Kremer. In sua vece in Conservatorio s’è ascoltata la violoncellista Natalia Gutman, tuttora vera fuoriclasse quanto a tecnica e memoria eccellenti, in duo col pianista russo Vyacheslav Poprugin dalla mano infallibile e dal suono granitico (fin troppo granitico). In apertura la brahmsiana Sonata op. 99 (ma l’inversione rispetto al previsto Schumann non è stata annunciata e ha finito per creare un po’ di smarrimento). Un Brahms affrontato con energia e virilità a scapito delle zone più umbratili, ma l’Adagio affettuoso ha ricevuto cure adeguate, poi ancora concitazione ed anche – occorre segnalarlo – alcune asprezze timbriche nel turbolento Finale. In seguito lo Schumann dei Fantasiestücke op. 73, scivolato via (a nostro avviso) un po’ monocromo, quindi l’impervia Sonata di Debussy. E qui il sound dei due russi risultava stilisticamente molto lontano dall’universo poetico del compositore dei Préludes, a partire dall’esordio, quasi irriconoscibile, laddove nell’Animé, léger et nerveux dagli spagnoleggianti ammiccamenti sì è registrato con sorpresa un colpo d’ala che lo ha (quanto meno in parte) riscattato. Dove il duo Gutman-Poprugin è parso in vece del tutto a proprio agio è stato nella Sonata di Britten che è senza dubbio al cento per cento nelle loro corde; di essa i due grandi interpreti hanno ben colto il colore livido e cupo del primo tempo, poi le iridescenze dello Scherzo-Pizzicato, la plumbea desolazione dell’Elegia le esacerbate atmosfere e le acuminate incandescente cubiste della superba Marcia (pagina bellissima, non a caso replicata a fine serata con gran successo) e così pure il rapinoso tour de force del Moto Perpetuo. Ammirato anche lo Scherzo dalla Sonata del loro sommo conterraneo Šostakovič , offerto come bis.
DUO TORTIA – ROCCA
Dei molti concerti pomeridiani, come pure di quelli del cartellone MiTo per la città che porta la grande musica nelle circoscrizioni, (impossibile seguirli tutti) una duplice sottolineatura: innanzitutto il raffinato Franck (la sublime Sonata oggetto di attenzione perfino da parte di Proust dal mirifico Finale a canone) offerto domenica 8 (chiesa della Madonna di Loreto) dal giovane e già affermato duo di violino e pianoforte Marta Tortia – Angiola Rocca, un vero duo, insomma due pur giovani e colte interpreti che pensano all’unisono, che di sicuro lavorano sodo quanto a studio e sanno rifinire di bulino, ne deriva un Franck ammirevole per fusione, equilibrio, appropriatezza di stile, cura meticolosa dei dettagli e molto altro; le due valide concertiste hanno eseguito anche la soave Reverie di Vieuxtemps e la Sonata di Poulenc, con magistrale intensità; e inoltre quanta leggiadria nel bis raveliano, e si trattava del Vocalise en forme de Habanera. Così pure da rilevare il 9 lo strepitoso successo di pubblico in Cattedrale dell’organista di caratura mondiale Massimo Nosetti (reduce da tournée oltre oceano), un pur vasto Duomo stracolmo e parecchi gli ‘esclusi’ per ragioni di capienza. Nosetti ha suonato da par suo pagine di Bach, Liszt, Franck e Widor. E pare di ritornare ai tempi delle prime edizioni di Settembre Musica che dei concerti pomeridiani nelle chiese fece una vera bandiera, catturando legioni di ascoltatori di classica.
TEMIRKANOV – COLLI – FILARMONICA DI SAN PIETROBURGO

Di enorme spicco poi la serata torinese al Lingotto (il 10) con la Filarmonica di San Pietroburgo già prodottasi la sera prima a Milano (agli Arcimboldi), ma con programma in parte diverso: a Torino la blasonata orchestra che conta fans fedelissimi e affezionati (non meno che al suo direttore, un Temirkanov costantemente in stato di grazia, sorridente e affabile, con quel gesto naturalissimo e quel magnetismo che gli ammiriamo da decenni e la concertazione sempre sorvegliatissima) al posto di Sheherazade ha eseguito la Quinta di Čajkovskij, sfoderando ancora una volta un suono bellissimo in tutte le sue sezioni (sagace aver disposto tromboni e tube alla destra). Quanta poesia nell’attacco del secondo tempo, indimenticabile, col celeberrimo tema cantabile e sensuale, quanta souplesse ritmica e quanta carezzevole eleganza nel Valzer, giù giù sino alle maestose fanfare del rutilante epilogo, nitido, apodittico, esemplare. Poi il bis d’ordinanza e tutti a nanna con le dolcezze di Nimrod dalle Enigma-Variations di Elgar, col quale Temirkanov ama chiudere e stupisce ogni volta per la gradazione incredibile delle sfumature dinamiche. Ma la vera rivelazione è stato il giovanissimo pianista Federico Colli che ha a dir poco sbancato nel difficilissimo Terzo di Rachmaninov, il mitico Rach III. Colli ha un talento fuori dalla norma, un cantabile stupendo (che bello l’attacco, soave e delicato), ma anche un suono di enorme volume dove occorre, tanto da tenere testa alla massa fonica dell’orchestra quando la partitura pare ingaggiare una sorta di immane lotta (e dire che è minuto di corporatura), ha senso della forma, una tecnica di livello singolarmente alto (se ha vinto a Leeds nel 2012 vorrà pur dire qualcosa); un astro di prima grandezza della tastiera, che fraseggia magnificamente, sa respirare, sempre in sintonia e in asse con l’orchestra, che ha una scioltezza e una cristallina luminosità nei molti passi di agilità (e lo ha confermato con l’adamantina purezza del bis bachiano, un Corale trascritto da Busoni, e Colli pareva il Glenn Gould del XXI secolo), e ancora un controllo del suono sovrano, una capacità unica di ‘re-inventare’ timbri bellissimi (la melanconia struggente dell’Intermezzo) e infine via coi passi a note ribattute mai sentiti così distinti, poi il Finale eccitato e magnetico e come bis la trascrizione del russo Pletnev della Danza della fata confetto dallo Schiaccianoci: parsa deliziosa nella sua grazia un poco frale. Un pianista che farà parlare molto di sé in un futuro assai prossimo: i numeri ce li ha tutti, compresa una buona dose di ‘sincerità’ interpretativa e perfino un pizzico di riserbo e umiltà, insomma non si atteggia (ancora) a star risultando simpatico (e pazienza per un look un filino kitsch con quel frac color crema e il foulard rosso che lo rinserrano accaldandolo, e dire che col Rach III c’è già da sudare parecchio a macinare passi di bravura e note su note…).
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