Terzo appuntamento del percorso creativo della Compagnia Zappalà Danza. Beethoven e la Nona Sinfonia, secondo la trascrizione per due pianoforti di Liszt, sono i protagonisti musicali dello spettacolo che ha debuttato al Teatro Massimo Bellini
di Santi Calabrò foto Serena Nicoletti
C’È UN MOMENTO PRECISO IN CUI la Sinfonia, in quanto genere musicale, si trasforma in un messaggio all’umanità: la Nona di Beethoven. Come se non bastasse la primazia in senso storico, la ricezione successiva ha fatto oggetto proprio questa sinfonia, più di ogni altra, di esercizi di sovrapposizione ideologica, sicché l’eccesso di concrezioni di significato può persino rovesciare il tavolo: dalla saturazione a una nuova verginità, da un passato che può incutere soggezione a un brano/cliché da maneggiare e riempire di denotazioni con disinvoltura, senza temere la naïveté. A ben guardare già la retorica dell’Inno alla gioia trasformato in Inno dell’Europa va in questa direzione. E anche nel caso dello spettacolo visto al Teatro Massimo Bellini di Catania, non c’è dubbio che la Compagnia Zappalà sia partita da una disposizione per niente oppressa o inibita dal peso e dai “precedenti” dell’opera.
Pensato come terzo appuntamento del nuovo percorso creativo della Compagnia Zappalà Danza di Roberto Zappalà, coreografo e regista, e Nello Calabrò, autore dei testi, “La Nona, dal caos, il corpo” ingloba pienamente Beethoven nel segno dell’intero progetto, che esplora il naufragio della nostra contemporaneità e la ricerca di una nuova humanitas (Transiti Humanitatis è per l’appunto il titolo del ciclo di spettacoli). Anche la Nona Sinfonia diventa così il luogo di una laicità e di una libertà riconducibili allo stato di natura, che identificano nel «tempio del corpo» e in una spiritualità areligiosa i loro fondamenti. Ciò che di per sé riesce decisamente più naïf e troppo definito nell’impianto di significati associati alla musica beethoveniana – l’esistenza come benedizione, di contro a qualsiasi peccato originario o successivo – è bilanciato per un verso dalla sua “dissonanza” rispetto alla densità semantica della Nona Sinfonia, per altro verso da una drammaturgia scenica, coreografica e testuale che nello spazio aperto da quella dissonanza continuamente rilancia il motivo del caos originario, che tende sempre a risorgere e a inghiottire chi lo contrasta.
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Su questo tema ruota l’intera rappresentazione e ciò costituisce il suo punto di forza: perché l’inizio della Nona è una delle più potenti rappresentazioni musicali fra quelle che rimandano per analogia a una lotta con il caos e a un titanico sforzo di dominio; perché il gesto più plastico del Finale è proprio quello per il quale tutti i mezzi del sinfonismo beethoveniano sembrano precipitare nell’autodissoluzione fino all’arrivo salvifico della parola/evento; e perché l’efficace linguaggio coreografico della Compagnia Zappalà, ben diretta e formata da danzatori eccellenti, restituisce bene la dialettica ambigua del caos e dell’humanitas, che non solo lasciano aperto il loro conflitto ma che a volte alludono a una compenetrazione, là dove il dionisiaco si insinua nell’umano.
Eccellente la prova di Stefania Cafaro e Luca Ballerini, alle prese con la trascrizione lisztiana per due pianoforti della Nona Sinfonia, restituita con un rigore stilistico che non esclude aperture esegetiche originali sia nella direzione di Beethoven che in quella di Liszt. In particolare nel terzo movimento il gioco dei piani sonori avvicina questo grandioso Adagio, in modo più evidente che nella originaria versione sinfonica, al monumentale Adagio della Sonata op. 106, sottolineando così la tangenza della Nona con l’enigmatico tardo stile beethoveniano (nel quale tradizionalmente si ritiene che la Nona ricopra un suo luogo a parte, più riassuntivo dello stile del periodo centrale beethoveniano che accordato agli esiti “moderni” dell’ultimo Beethoven). Nell’ultimo movimento, invece, Ballerini e Cafaro sposano la pienezza lisztiana della (ri)scrittura in modo più rischiosamente esplicito che nel resto dell’opera, con un effetto trascinante che riesce, grazie alla bravura e al controllo dei pianisti, a mantenere nella pienezza del gesto virtuosistico di Liszt gli equilibri del logos beethoveniano. Pregevole anche la prova del controtenore Riccardo Angelo Strano, alle prese con il testo schilleriano del celebre Finale.
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