di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
Che le rovine della cattedrale gotica voluta da Harry Kupfer e da Hans Schavernoch come scena fissa per i Meistersinger che sono stati importati alla Scala dall’Opera di Zurigo si riferiscano alla chiesa di S. Caterina a Norimberga o a una delle magnifiche chiese distrutte a Dresda o altrove dalla furia della guerra poco importa. Sta di fatto che chiunque abbia compiuto un viaggio in Germania a partire dagli anni del secondo dopoguerra, forte di un proprio percorso culturale pregresso, non ha davvero potuto trattenere la commozione nel vedere così ridotti edifici bellissimi e rivoluzionato l’assetto urbanistico di intere città. E ogni volta si è portati a sognare di poter effettuare un viaggio indietro nel tempo, di entrare in qualche vecchio negozio di musica o di strumenti, di frequentare locali divenuti leggendari, assaporare quell’atmosfera che affascinò intere generazioni di visitatori. E se nella scena unica di questa produzione teatrale le immagini in lontananza di cantieri, gru e grattacieli indicano il futuro, la ricostruzione positiva, una parte di noi resta ancora abbarbicata a quelle rovine, al tempo antico perché non sempre modernità è sinonimo di miglioramento, almeno da punto di vista estetico.
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Il rinnovamento e soprattutto la glorificazione della Germania intera è al centro del messaggio storico-politico sottinteso dall’opera wagneriana, una glorificazione che è stata così spesso male interpretata come anticipatrice delle dottrine che hanno portato dritte agli orrori nazisti e che allo stesso tempo animò il fondamentale processo di unificazione verso l’Impero voluto da Bismarck proprio negli anni in cui nascono i Meistersinger. E se le immagini di un Furtwängler che dirige l’immortale Vorspiel primo dell’opera di fronte ai gerarchi nazisti, ai militari feriti, e che stringe alla fine la mano a Goebbels in segno di ringraziamento sono ancora davanti ai nostri occhi, non per questo si può certo imputare a Richard Wagner la responsabilità culturale nell’avere in qualche modo resa possibile la catastrofe che tutti conosciamo.
La produzione dei Meistersinger che finalmente approda alla Scala è avvincente dal punto di vista scenico soprattutto nel Primo atto. Ma l’effetto di apertura si perde con il procedere del tempo e purtroppo all’impianto fisso si sovrappongono idee che non convincono per nulla. Ad esempio la descrizione della baruffa che chiude il second’atto, momento in cui la regia dovrebbe evitare di immettere in scena in un sol botto tutti i partecipanti a quella che diventa a poco a poco una vera e propria rissa. Nel libretto la gazzarra si alimenta a poco a poco ed è illustrata musicalmente dalla forma di una fuga estremamente complessa per il numero di voci implicate, voci che intervengono appunto secondo regole contrappuntistiche ben precise. Meglio sottolineati, per l’importanza che sottintendono, dovrebbero essere ancora i momenti estremi che delimitano la scena notturna, con il passaggio del guardiano, momento musicale davvero magico siglato da una sola nota del corno. Caroselli di mimi e figure circensi nel terz’atto potevano poi essere evitati e ci hanno ricordato i momenti peggiori del teatro di regia.
Daniele Gatti ama alla follia questa partitura e ce lo comunica in ogni istante, mettendo anche a frutto un’esperienza direttoriale che gli permette oramai di eseguire qualsivoglia repertorio. La sua lettura non ammette indugi tranne che nei punti tradizionalmente elevatissimi dell’opera come il Preludio all’Atto terzo e il Quintetto, e ciò dà luogo a una proposta che non fa mai pesare il procedere di un testo musicale a volte ridondante e comunque di lunghezza proverbiale, soprattutto nel terz’atto. Con Gatti si è mossa in perfetto accordo tutta la compagnia di canto, eccellente tranne che nel caso del Walther di Michael Schade, tenore che riprende i peggiori caratteri del cantante tedesco che andava di moda negli anni ’70 e ’80 e che invece di affascinare l’uditorio con le proprie qualità musicali, secondo le premesse di quest’opera, finisce per riproporre un modello di canto desueto e un timbro per nulla piacevole.
È sembrato a un certo punto che i ruoli di Walther e di Beckmesser si fossero improvvisamente scambiati di posto. Markus Werba ha infatti cancellato – forse troppo forzatamente e per troppa bravura – tutta una serie di forzature vocali e di dizione che hanno da sempre caratterizzato in teatro la figura dell’antipatico e supponente censore. I veri trionfatori della serata sono stati, oltre a Werba, il Sachs di Michael Volle e il Pogner di Albert Dohmen, seguiti a breve distanza dall’affascinante seppure vocalmente minuta Eva di Jacquelin Wagner, dal David di Peter Sonn e dalla volitiva Magdalene di Anna Lapkovskaja. Bravissimi tutti gli altri componenti del cast. Grande successo personale di Gatti, nuovo ambasciatore wagneriano per l’Italia, e anche di Pereira che questi Meistersinger ha vissuto in prima persona fin dal debutto a Zurigo.
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