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Noseda dirige Manon Lescaut al Regio di Torino

di Attilio Piovano
21 Marzo 2017
in OPERA
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Home OPERA
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di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese


È SICURAMENTE DAL TOCCANTE (e a dir poco sublime) Intermezzo anteposto al terz’atto che occorre esordire per valutare correttamente la Manon Lescaut diretta al Regio di Torino da Gianandrea Noseda (al suo debutto in tal senso) a partire dallo scorso 14 marzo 2017 (per un totale di otto recite): una lettura per così dire intimista – quella dell’Intermezzo – struggente riverbero dell’infelice amore dei protagonisti reso con geniale intuito dall’empito melodico degli archi, impreziosito dalle arpe e poi rilanciato a piena orchestra, mimesi della palpabile disperazione di De Grieux. Un’interpretazione, quella di Noseda, cesellata nei minimi dettagli armonico-timbrici, attenta ad evidenziare la bella curva espressiva, dunque con il culmine dinamico al centro e il ripiegarsi delicato e diafano delle ultime misure. E da lì si è ben compreso quanto Noseda abbia opportunamente inteso ‘puntare’ (negli ultimi due atti, in special modo) sulla componente psicologica, nonché sulla dimensione tragica che domina la parte conclusiva di Manon: con al centro, a sovrastare il tutto, il dramma dei due amanti, giù giù sino all’esito fatale e la morte di stenti della condannata sulle lande desolate del Nuovo Mondo, «ai confini con la New Orleans».

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Insomma quel mix ‘decadente’ di amore e morte, di eros e thanatos, estremo portato del Romanticismo che in Puccini tanto copiosi e convincenti frutti continuò a produrre, dall’ottocentesca Manon (‘battezzata’ proprio al Regio di Torino nel 1893 a pochi giorni dall’exploit scaligero del Falstaff) alle ‘novecentesche’ Tosca, Butterfly e oltre. E allora ecco giustificato, o quanto meno comprensibile, il piglio ‘giovanilistico’, animato, ipercinetico e forse a tratti addirittura ipertrofico della lettura dei primi due atti, specie il primo, con tempi oltremodo sbrigliati, dinamiche significative, l’orchestra sempre in primo piano (anche a costo di rischiare di coprire talora qualche tratto vocale). E per contro il climax espressivo dell’ultimo atto con la gemma melodica di «Sola, perduta abbandonata» che è tra i vertici del Puccini giovanile.

Noseda ha potuto contare sull’orchestra del Regio in buona forma che lo ha sempre assecondato, dando prova di efficienza inappuntabile e duttilità, trascorrendo appunto dagli apici fonici del primo atto alle rarefazioni estenuate dell’ultimissima parte. Del cast occorrerà porre in luce l’innegabile bravura di Gregory Kunde, ancorché (phisique du rôle inadeguato a parte) i panni del giovane aitante non corrispondano propriamente al suo ruolo. Se l’è cavata bene, con mestiere e professionalità, andando in crescendo nel corso della serata e regalando anche qualche emozione (immancabile in «Donna non vidi mai»). Da María José Siri (anch’ella phisique du rôle prescindendo) ci si sarebbe aspettati invece qualche guizzo in più, qualche momento di maggior intensità invano atteso sino all’ultimo: a partire da «In quelle trine morbide» sfilata via un po’ così (apprezzata nel momento dell’addio alla vita più sul piano scenico che su quello vocale). Per lo più inadeguato e scialbo Dalibor Jenis nelle vesti di Lescaut (davvero tornerà in giugno al Regio nei panni protagonistici di Macbeth? In molti se lo domandavano con un certo imbarazzo); del tutto convincente, per contro, il Geronte sbozzato dal navigato Carlo Lepore. Corretti i comprimari.

L’allestimento è quello visto nel 2006, con i fastosi costumi di Christian Gasc e soprattutto le sontuose, oleografiche scene di Thierry Flamand, nuovamente apprezzate per la cura dei particolari e la filologica qualità della realizzazione: già l’osteria di Amiens nel Primo atto all’imbrunire, con arcate, un andito sulla destra ed una scala dal lato opposto, al centro un grande lampadario tempestato di candele; e poi il lussuoso appartamento parigino di Geronte fitto di dorature, specchiere, lampadari e candelabri, stoffe damascate, poltrone e consolles in stile. L’allora regia di Jean Reno è ora firmata da Vittorio Borrelli: che muovendo i personaggi con pur prevedibile disinvoltura ha poi richiesto inutili faccine nella scena del ‘madrigale’ mentre alle prostitute che escono di prigione per avviarsi alla nave ancorata nel porto di Le Havre, una serie di gags ‘caricate’; sicché l’una schiaffeggia il gendarme, l’altra sputa a terra platealmente e un’altra addirittura sferra un pugno al malcapitato militare che si piega in due con tanto di smorfia; si sarebbe potuto francamente evitare.

Laddove è stato invece espunto (chissà perché) un efficace colpo di scena a conclusione del Second’atto, vale a dire  la caduta dei velari al momento dell’arresto di Manon: ne emergevano muri scabri e sbrecciati quasi a designare fisicamente il crollo di una situazione ormai compromessa in maniera irriducibile, nulla di tutto ciò. Peccato. Un tocco di trash, poi nel momento in cui Des Grieux fatica a slacciare il corsetto di Manon e poi le si avventa con ardore come nemmeno l’infoiato Scarpia, con esiti involontariamente comici. E ancora: per il quarto atto, a rendere realisticamente la landa desolata ecco un semplice e scabro piano inclinato a designare il territorio desertico e aspro; nel 2006 campeggiava un sole calante all’orizzonte dai toni arancio rossastri poi sempre più cupi oggi sostituito da luci più scialbe e grigiastre.

Il vestito di Manon in chiusura è stato (banalmente) sostituito da una mise in nero prevedibilmente a lutto, come se le deportate avessero il tempo di cambiarsi d’abito, ma sulla copertina del programma di sala campeggia invece l’immagine  di Manon morente con vestito beige, quello della vecchia edizione per ovvie ragioni redazionali, il fatto è che l’attuale Manon in gramaglie è l’ultima immagine che il pubblico si porta a casa. Come sempre corretto l’apporto del coro (ben istruito da Claudio Fenoglio) cui spetta un passo di rilievo, nel terz’atto, tra le umide brume del porto di Le Havre, all’alba.

Applausi sostenuti e protratti a fine spettacolo soprattutto all’indirizzo di Kunde e Noseda, fatto oggetto  – quest’ultimo – di (meritati) omaggi floreali. Infine, comprensibili le esigenze tecniche dei cambi di scena, va bene la diretta radiofonica e televisiva, ma tre intervalli sono davvero troppi e defatiganti, finendo per spezzare tensione alla partitura pucciniana dal non eccelso libretto frutto – si sa – di troppe firme.

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Tags: Dalibor JenisGianandrea NosedaGregory KundeMaria José Siri
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Attilio Piovano

Attilio Piovano

Musicologo e scrittore, ha pubblicato (tra gli altri) Invito all’ascolto di Ravel (Mursia 1995, ristampa RCS 2018), i racconti musicali La stella amica (Daniela Piazza 2002), Il segreto di Stravinskij (Riccadonna 2006) e L’uomo del metrò (e-book interattivo per i tipi de ilcorrieremusicale.it 2016, prefazione di Gianandrea Noseda). Inoltre i romanzi L’Aprilia blu (Daniela Piazza 2003) e Sapeva di erica, di torba e di salmastro (rueBallu 2009, prefazione di Uto Ughi). Coautore di una monografia su Felice Quaranta (con Ennio e Patrizia Bassi, Centro Studi Piemontesi 1994), del volume Venti anni di Festival Organistico Internazionale (con Massimo Nosetti, 2003), curatore e coautore del volume La terza mano del pianista (Testo & Immagine 1997). Laurea in Lettere, studi in Composizione, diploma in Pianoforte, in Musica corale e Direzione di Coro, è autore di contributi, specie sulla musica di primo ‘900, apparsi in volumi miscellanei, atti di convegni e su rivista. Saggista e conferenziere, vanta collaborazioni con La Scala, Opéra Royal Liège, RAI, La Fenice, Opera di Roma, Lirico di Cagliari, Coccia di Novara, Carlo Felice di Genova, Stresa Festival, Orchestra Camerata Ducale ecc.; a Torino col Festival MiTo (già Settembre Musica, ininterrottamente dal 1984), Unione Musicale, Teatro Regio, Politecnico e con varie altre istituzioni. Già corrispondente del «Corriere del Teatro», ha esercitato la critica su più testate; dalla fondazione scrive per «ilcorrieremusicale.it»; ha scritto inoltre per «Torinosette», magazine de «La Stampa», ha collaborato con «Amadeus» e scrive (dal 1989) per «La Voce del Popolo» (dal 2016 divenuta «La Voce e il Tempo»); dal 2018 recensisce per «Il Corriere della Sera» (edizione di Torino). Membro di giuria in concorsi letterari nonché di musica da camera e solistici. Docente di Storia ed Estetica della Musica (dal 1986, presso vari Conservatori), dal 1991 a tutt’oggi è titolare di cattedra presso il Conservatorio “G. Cantelli” di Novara dove è inoltre incaricato dell’insegnamento di Storia della Musica sacra moderna e contemporanea nell’ambito del Corso biennale di Diploma Accademico in Discipline Musicali (Musica sacra) attivato dall’a.a. 2008/2009 in collaborazione col Pontificio Ateneo di Musica Sacra in Roma. Dal 1° gennaio 2018, cura inoltre l’Ufficio Stampa del Conservatorio “G. Cantelli”. Dal 2012 tiene corsi monografici sulla Storia del Melodramma (workshop su «Architettura, Scenografia e Musica» presso il Dipartimento di Architettura & Design del Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale, in collaborazione con Fondazione Teatro Regio). È stato Direttore Artistico dell’Orchestra Filarmonica di Torino. Dal 1976 a Torino è organista presso la Cappella Esterna dell’Istituto Internazionale ‘Don Bosco’, Pontificia Università Salesiana (UPS), dal 2017 anche presso la barocca chiesa di San Carlo, nella piazza omonima, e più di recente in Santa Teresa. Nell’autunno del 2018 in veste di organista ha partecipato ad una produzione del Requiem op. 48 di Fauré. È citato nel Dizionario di Musica Classica a cura di Piero Mioli, BUR, Milano © 2006, che gli dedica una ‘voce’ specifica (vol. II, p. 1414).

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