di Luca Chierici
Arrivare a dirigere a memoria le centottanta e più pagine della nona sinfonia di Mahler, con una compenetrazione totale di tutti i dettagli di una partitura che definire complessa è un eufemismo, è stato il regalo che Daniele Gatti ha fatto a se stesso, all’orchestra filarmonica della Scala e al pubblico che lo attendeva al varco anche a causa della sua non ufficiale e prossima nomina a successore di Riccardo Chailly nell’organigramma del Teatro.
La nona di Mahler è una sinfonia che richiede una preparazione speciale all’orchestra ma anche al pubblico che la va ascoltare, che non deve essere ignaro della complicazione e del disgregamento di una forma giunta nel 1909 ai limiti che porteranno ai risultati della seconda scuola di Vienna. Siamo tutti, chi più chi meno, impressionati dalle ultime esecuzioni che di questa Sinfonia dava Claudio Abbado, colpiti da quel video dove il grande direttore stira fino all’inverosimile la forma e il suono dell’Adagio finale rimanendo in un silenzio spettrale che dura un tempo apparentemente interminabile prima di accogliere gli applausi del pubblico. Daniele Gatti ha diretto la nona con l’Orchestre National de France, con la RAI, con la Staatskapelle di Dresda e ha quindi maturato una esperienza che non solo giustifica la sua successione futura a capo della Scala (come si fossero fatti altri nomi di più giovani direttori che non hanno che un briciolo della bravura e dell’esperienza di Gatti rimane un mistero) ma ci rassicura sulla validità della sua meditazione nei confronti di questa partitura estrema. Gatti è riuscito a dipanare le asimmetrie dell’Andante comodo iniziale, ha articolato con esemplare chiarezza il secondo movimento in tempo di Laendler, ha dominato il garbuglio contrappuntistico che caratterizza il Rondo-Burleske ed è arrivato in fine all’Adagio con una voluttà di canto memorabile. Il pubblico ha risposto con entusiasmo e commozione e ha onorato direttore e orchestra con vere e proprie ovazioni.