di Luca Chierici
Non lo si ascoltava da molto, troppo tempo, il Werther, che è sicuramente il capolavoro del suo autore e un’opera che ha riscosso da sempre una notevole successo di pubblico per la bellezza della musica e il rimando a un soggetto classico della poetica goethiana.
Ciò che si è visto alla Scala presupponeva una conoscenza da parte degli astanti non solamente della vicenda in sé ma anche delle didascalie del libretto, dell’ambientazione del soggetto, poiché ben poco si salvava nella immaginifica versione preparata dal regista Christof Loy che ha operato più sui meccanismi che regolano i rapporti tra i personaggi che sulla coerenza del soggetto stesso. Loy ha infatti letto la vicenda aderendo sì alla psicologia di Werther, Charlotte, Albert e Sophie ma quasi studiandone i risvolti reciproci, dando per scontato, complice le schematiche scene di Johannes Leiacker, che agli astanti poco interessasse la struttura del borgo nel quale si svolge la vicenda, la casa del Borgomastro e quella di Albert alla vigilia di Natale, lo studio di Werther agonizzante. Un’unica scena con una porta a due battenti scorrevoli incastonata in una enorme parete vuota, che lascia intravedere solamente cosa accade al di là, rappresenta l’idea che Loy ha dell’ambientazione di quest’opera, lasciando lo spettatore dunque immaginare tutti gli altri dettagli del libretto. È un’idea forte, abbiamo detto, che permette al regista la riflessione su altri aspetti della vicenda, o meglio sui rapporti che intercorrono tra i protagonisti e che davvero guarda, più che all’opera di Massenet (che si perderebbe anche in particolari sdolcinati tipici di una giovane borghesia tedesca) al testo originale di Goethe. Se è vero che il romanzo goethiano innescò una serie di suicidi per amore, è questo il contesto in cui Loy precipita lo spettatore, per nulla attratto dai riferimenti borghesi che si affacciano al di là del portale o, all’inizio, al di qua con la scena dei bambini che evocano il Natale. Non tutto però funziona in questa visione del regista, che nelle scene finali si perde in una rappresentazione del suicidio del protagonista con alcuni particolari male risolti. Sono i trabocchetti delle regìe “moderne”, che a furia di eludere gli aspetti tradizionali cadono spesso nell’inespresso, nel difficile da cogliere. Aspetti tradizionali che, ad esempio, erano invece ravvisabili nei bellissimi costumi femminili dovuti a Robby Duiveman.
Ciò premesso l’edizione andata in scena alla Scala si è rivelata perfettamente consona alla lettura del regista, con una direzione di Altinoglu che ha confermato l’abilità del direttore nel dipanare la musica che scorre a fiumi nell’immaginazione del compositore, soffermandosi sia sugli aspetti corali che, soprattutto, sui commenti che delineano la personalità dei quattro protagonisti principali. Una sorpresa per tutti è stata la Sophie di Francesca Pia Vitale che ha stupito per vocalità smagliante e perfetta rispondenza al ruolo di amante segretamente respinta da Werther, e bene inserito nel non facile personaggio si è rivelato Jean Sébastien Bou come Albert. Charlotte di gran pregio è stata Victoria Karkacheva, non fosse stato per la dizione francese poco comprensibile, elemento che è stato riscattato dalla personalità della voce e dalla notevole presenza scenica. Ma la più che attesa star della serata era Benjamin Bernheim, Werther che si è immerso con spontanea aderenza al personaggio e che forse ha oltrepassato i pur presenti limiti del regista. Bernheim è un tenore che ha approfondito tutti gli aspetti della partitura, che è stato capace di sovrastare anche le ondate di suono davvero wagneriane che Altinoglu ha richiesto all’orchestra e che non ha avuto paura di confrontarsi con un Werther d’annata che era stato l’indimenticabile Alfredo Kraus. Grandi applausi per tutti (una volta tanto anche per i responsabili dell’allestimento), per l’importante ruolo dei bambini del coro di voci bianche istruito da Casoni, e commozione palpabile – ancora oggi – nel pubblico.